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UN'ALTRA
VITA
UN'ALTRA STORIA
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
Quando
il Freccia Rossa raggiunse la stazione
di Parma da poco aveva terminato di
piovere. Una serie di archi con i colori
dello spettro solare, nati dalla
rifrazione dei raggi del sole sulle
gocce di pioggia sospese nell'aria,
tingeva il cielo sopra le tettoie delle
pensiline. Mi servii del sottopassaggio
per raggiungere l'uscita della stazione
ferroviaria. Lasciai alle mie spalle
l'arcobaleno e diedi all'autista del
taxi l'indirizzo di Vittorio.
- Mi accompagni in
Borgo Santo Spirito.
- Va bene. - disse il
taxista
Erano trascorsi dieci
anni da quando mi ero allontanata da
Parma. Avevo giurato a me stessa che non
ci avrei più messo piede, invece la
malattia di Vittorio mi aveva guidato di
nuovo in città.
Venuta a conoscenza
del suo cattivo stato di salute non
avevo esitato a salire sul treno e precipitarmi da lui, conscia che sarebbe
stata una delle ultime occasioni per
incontrare il padre di mio figlio.
Quando il taxi
raggiunse Borgo Santo Spirito il primo
edificio in cui mi imbattei fu una
costruzione bassa, circondata da una
macchia di colore, con piante dalle
tinte vivaci in piena fioritura.
- E questo edificio
cos'è? - chiesi al taxista indicando la
costruzione che si ergeva davanti a noi.
- Un asilo nido.
- Ah!
Il fabbricato davanti
ai miei occhi, a forma di H, occupava
l'area dove un tempo sorgeva la stazione
della Monta, luogo deputato
all'accoppiamento dei cavalli. Mi stupii
nel costatare che gli amministratori
comunali avevano deciso di eliminare un
complesso architettonico tanto ricco di
memoria storica per fare spazio a un
asilo.
- Mi indichi il
numero civico dove devo condurla. -
disse il taxista una volta imboccata la
strada.
- Prosegua fino a metà
borgo.
Il taxista arrestò
la vettura dinanzi a un edificio dalla
facciata colore giallo canarino. In un appartamento al terzo piano di
quell'edificio avevo alloggiato ai
tempi dell'università. E nella medesima
casa viveva tuttora Vittorio.
Prima di mettere
piede a terra pagai il taxista, dopodiché
aprii la portiera attenta a non
appoggiare i sandali in una delle
pozzanghere che popolavano il selciato.
Durante il viaggio avevo pensato parecchio a Vittorio
e alle parole che avrei dovuto dirgli,
ma quando mi trovai dinnanzi al portone
della sua abitazione mi prese la paura
di non sapere cosa raccontargli.
Disorientata avrei voluto fuggire,
invece trovai la forza di premere il
pulsante del campanello relativo al suo nome.
Una voce maschile,
che compresi essere quella di Vittorio,
diede risposta al citofono quasi subito.
- Chi è?
- Sono io, Mara. -
dissi certa di sorprenderlo.
- Mara chi?
- Mara! Non ti
ricordi più di me?
Una pausa prolungata
anticipò l'apertura elettromeccanica
del portone.
- Si è aperta la
porta?
- Sì, vengo su da
te. Ti spiace?
- No, vieni pure, se
ti fa piacere.
Percorsi tutta d'un
fiato la prima rampa di scale e arrivai
al pianerottolo del primo piano.
Arrestai la corsa davanti alla targa
d'ottone su cui era inciso il nome:
"Dr. Vittorio Ablondi".
Appoggiai il culo contro la ringhiera di
ferro battuto addobbata con vasi di
gerani e rimasi in attesa. Quando la
porta si aprì mi trovai faccia a faccia
con Vittorio.
Restammo alcuni
istanti senza scambiarci una sola
parola, scrutandoci in viso, privi di
difese, alla ricerca di quei mutamenti
che non erano visibili sui nostri volti
perché solo interiori.
Vittorio nonostante
la malattia aveva mantenuto il medesimo
aspetto di quando c'eravamo separati
dieci anni addietro. Mi abbracciò forte
come era solito fare quando convivevamo
nella stessa abitazione, poi mi accarezzò
i capelli dietro la nuca.
- Non ti aspettavo. -
disse visibilmente emozionato per la mia
presenza.
Anch'io lo ero, molto
più di lui. Il cuore sembrava uscirmi
dal petto per l'emozione e faticai a
parlare. Le lacrime cominciarono a
rigargli le guance.
- Ehi, come stai? -
dissi.
- Bene... bene. -
farfugliò mantenendo il capo chino.
- Sorpreso?
- Sì.
- Non mi fai entrare?
Oppure preferisci che seguitiamo a
parlare sul pianerottolo?
- No... no, vieni,
accomodati. - disse scostando del tutto
la porta per lasciarmi passare.
La paura che mi aveva
colto davanti al portone di casa mi
abbandonò nel momento in cui misi piede
nell'appartamento.
Appena dentro gettai
lo sguardo verso le stanze di
lato al corridoio. Tutto mi era
famigliare. Nulla era cambiato
dall'ultima volta che ero stata lì.
I ripiani di legno
della libreria occupavano le
quattro le pareti del salotto che
continuava a essere la parte più vitale
dell'abitazione. Una grande quantità di
libri era impilata agli angoli della
stanza e persino sotto le due finestre
che si affacciavano sul Parco Ducale.
Andai a sedermi sulla
poltrona di velluto dove ero solita
prendere posto quando abitavo con lui.
Vittorio si accomodò sul divano,
proprio di fronte a me, e mi guardò,
dieci anni dopo.
- Strano, ma ho
l'impressione che in questa stanza nulla
sia mutato. E' rimasta come l'avevo
lasciata, vero? E tu, tu sei cambiato?
Non diede risposta
alla domanda che con poco tatto gli
avevo mosso. Esitò prima di
rispondermi. Accavallò un paio di volte
le gambe e portò la mano sulla fronte
facendo scivolare le dita sulle palpebre
degli occhi e poi sul naso, finendo per
stropicciarsi le labbra.
- Scusami, non volevo
metterti in difficoltà. - dissi
anticipando le sue parole.
Soltanto il giorno
prima del mio arrivo in quella casa,
attraverso un percorso a dire poco
tortuoso ero venuta a conoscenza della
malattia di cui era affetto. Era stata
Gisella a informarmi del carcinoma che
aveva colpito il padre di mio figlio.
- Gisella, ti ricordi
di lei, vero?
- Sì, certo, come
no.
- Durante questi
anni, nonostante la lontananza, siamo
rimaste in contatto. Ci vediamo
saltuariamente. Ieri mi ha telefonato e
mi ha informato della tua malattia. Come
stai? Ti trovo bene, hai un
bell'aspetto, non sembri neppure malato.
- Trovi?
- Sì, dico sul
serio.
- Non lasciarti
suggestionare dalle apparenze, lui, il
tumore, sta lavorando in silenzio. -
pronunciò la parola tumore
accompagnandola con un mesto sorriso. -
Non è facile accettare di essere
affetto da un carcinoma, faccio fatica a
crederci anche adesso. Quando i medici
mi hanno informato del male sono rimasto
incredulo. Ho seguitato a lungo a pormi
la medesima domanda. "Perché è
accaduto proprio a me?". Penso che
sia l'interrogativo che si pongono tutti
coloro che si trovano nella mia
condizione, non credi? Ma non ho trovato
una degna risposta. Addosso mi è
rimasto soltanto il tormento, l'angoscia
di sapere quanto tempo mi resterà da
vivere, tutto qui.
Rimasi muta,
impotente di fronte alle sue parole,
senza riuscire a pronunciare una sola
frase. Eppure andando lì ero
determinata a esprimigli tutte le parole
che non avevo saputo dirgli durante
quegli anni di lontananza.
Quando c'eravamo
lasciati, dieci anni addietro, lo avevo
fatto perché, un pomeriggio, entrando
nella nostra camera lo avevo trovato,
sdraiato sul letto, con il cazzo di un
nostro compagno di università infilato
in bocca intento a fargli un pompino.
Gli gridai addosso
tutta la rabbia che avevo in corpo, poi
scappai via piangendo. Trovarlo in
compagnia di un uomo mi suscitò un
profondo disgusto. Le giustificazioni
che addusse non mi schiodarono dalla
decisione di troncare il nostro
rapporto. Rifiutai di ascoltarlo
nonostante fossimo in procinto di
sposarci e io al terzo mese di
gravidanza.
Nostro figlio nacque
in clinica a Brescia dove tornai a
vivere insieme ai miei genitori dopo
avere lasciato Parma, Vittorio, e gli
studi universitari.
- Nostro figlio come
sta?
- Bene.
- E' al corrente
della mia esistenza?
- No.
- Mi piacerebbe
conoscerlo prima di...
- E' convinto che il
suo papà sia Paolo, mio marito.
- Mi sembra giusto.
- Com'è? Mi
assomiglia?
- Sì, molto, è
bello come te.
- E’ perspicace
come lo eri tu quando frequentavi
l'università?
- Di più.
Vittorio sorrise per
la prima volta da quando avevo messo
piede nell'appartamento e la cosa mi
fece piacere.
- Stai facendo
qualche cura?
- Ho fatto più di un
ciclo di chemioterapia, adesso non più.
- Perché?
- Preferisco così.
- I medici cosa
dicono?
- Che ho tre, quattro
mesi di vita. Non di più. Sto finendo
il mio tempo.
- Mi spiace.
- Prendi qualcosa da
bere? Vino? Un caffè? - disse alzandosi
dal divano.
- Sì, grazie, un
caffè.
Si allontanò dal
salotto e tornò poco dopo con due
grosse tazze fumanti strette nella mano.
- E' caffè d'orzo,
l'ho scaldato col forno a microonde.
Assomiglia più a una bevanda che a un caffè, oramai sono abituato a
consumarlo in questo modo.
- Non fa niente, lo
bevo ugualmente. - dissi afferrando la
tazza che mi porgeva.
Restammo a parlare a
lungo di tutto e di niente. Lui parlò
più di quanto feci io come era solito
fare. Il tempo non aveva cancellato i
ricordi del nostro amore, l'avevo sempre
saputo, per questo ero corsa lì.
- Non ti sei sposato.
- dissi scioccamente.
- No.
- Perché?
- Non lo so, il caso
forse.
- Non credo al fato,
ogni cosa in questa vita ha una sua
ragione d'essere.
- Dici?
- Sì.
- Parlami di nostro
figlio.
- Cosa vuoi sapere?
- Tutto.
Quel pomeriggio trovò
persino la forza di scoparmi, desiderava
farlo e io più di lui. Lo cavalcai
sulla poltrona del salotto con lui
seduto e io sopra. Stavolta feci tutto
io, non si stancò troppo e riuscii a
portarlo sino all'orgasmo.
I suoi occhi non si
staccarono un solo istante dai miei
mentre mi scopava, commoventi più di
qualsiasi parola.
La mattina seguente
mi svegliai nel suo letto dopo avere
trascorso la nottata accanto a lui.
Quando mi accompagnò alla stazione
ferroviaria mi stracciò la promessa di
fargli conoscere suo figlio. Ma non fece
in tempo a incontrarlo, la settimana
seguente il nostro incontro Vittorio morì
per una emorragia cerebrale.
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