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PRIMA
DEL SESSANTANOVE
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
L'autunno caldo a Parma
ebbe inizio con un anno d'anticipo rispetto
alle grandi mobilitazioni operaie del 1969. Dopo le frequenti manifestazioni studentesche della primavera, coincise con il
"Maggio Francese", la città
fu attraversata da nuove correnti di contestazione. I fermenti di un nuovo movimento culturale, capace di mettere scompiglio nella coscienza delle persone, stavano spargendosi a macchia d'olio nei diversi strati della popolazione determinando un radicale cambiamento nel tessuto sociale della città.
Con il sopraggiungere della stagione autunnale l'intera
popolazione e le sue istituzioni si
trovarono a fare fronte, ancora una volta, a contestazioni di grande rilevanza sociale.
Il 14 settembre 1968 un manipolo di giovani cattolici, appartenenti a
gruppi spontanei sparsi sul territorio parmense, sfavorevoli alla politica della chiesa verso le voci del rinnovamento e del dissenso, occuparono la Cattedrale.
L'accadimento ebbe un grande clamore in città, e non solo nella comunità
cattolica. Ne scrissero i giornali nazionali
facendo ricorso a dei titoli cubitali, infatti, non era mai accaduto niente di simile nella storia recente della chiesa. La protesta si esaurì nel giro di poche ore con l'intervento delle forze dell'ordine, prontamente accorse dietro richiesta della curia vescovile, con conseguente sgombero degli occupanti dal luogo di culto.
Soltanto pochi giorni dopo l'occupazione della Cattedrale un gruppo di studenti e lavoratori mise in atto, davanti al Cinema Verdi, in Via
Paciaudi, un'accesa contestazione contro la proiezione del film "Berretti verdi", pellicola che celebrava il modo di combattere dei soldati yankee e la guerra nel Vietnam, (all'epoca gli americani avevano già perduto centomila soldati tra caduti, dispersi, feriti e prigionieri) impedendo, di fatto, alla gente l'ingresso nella sala del cinematografo.
Dopo una turbolenta primavera, caratterizzata da frequenti scontri fra neofascisti e studenti del Movimento Studentesco, culminata nell'occupazione del Palazzo Centrale dell'Università, l'estate sembrava
avesse acquietato il sangue bollente di studenti e operai. Ma col sopraggiungere dell'autunno e la ripresa delle lezioni
all'università il clima in città si
fece di nuovo teso, come lo era stato nei giorni dell'occupazione, allorché gli studenti, disgustati da una università in cui i figli dei ricchi si preparavano a diventare dirigenti mentre quelli degli operai avrebbero dovuto subire un lavaggio del cervello, avevano messo in atto una rabbiosa contestazione contro un sistema scolastico arretrato e lontano dalla realtà sociale che stava venendo avanti.
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Il 24 aprile si verificò un primo attacco
da parte di neofascisti contro gli studenti asserragliati nei locali dell'Università. Gli assediati, coadiuvati da un consistente numero di lavoratori, accorsi a dare
loro manforte, fronteggiarono e respinsero più di un attacco da parte
dei gruppi di neofascisti. In quella occasione le forze dell'ordine, presenti in gran numero davanti al portone
d'ingresso dell'ateneo, non intervennero per
frenare gli ardori violenti degli aggressori lasciando che i neofascisti assaltassero l'edificio.
Una mattina, di buon ora, dopo tre settimane di occupazione, i carabinieri fecero irruzione all'interno del Palazzo centrale dell'Università e trascinarono all'esterno gli occupanti che resistettero passivamente alla cacciata. Ma
lo stesso giorno, verso sera, l'Ateneo fu di nuovo occupato dagli studenti coadiuvati
stavolta da un gran numero di operai accorsi a esprimere solidarietà e reclamare
insieme agli studenti un modo diverso di fare cultura.
Se durante il periodo primaverile protagonisti assoluti della ribalta cittadina
erano stati gli studenti, con il loro movimento di contestazione e le occupazioni delle scuole, con l'approssimarsi dell'estate e l'autunno i personaggi principali della scena
furono i lavoratori delle fabbriche con le lotte portate avanti dentro e fuori gli ambienti di lavoro.
Alle vetrerie Bormioli si susseguirono gli scioperi con lo scopo d'indurre la direzione della fabbrica a concordare gli organici reparto per reparto, adeguando gli incentivi economici all'aumento dei ritmi di produzione. Lo stesso accadde alla
Barilla, alla Salvarani e all'Eridania dove gli operai proclamarono diversi giorni di sciopero.
Il 2 ottobre, dopo una assemblea con i dirigenti dei tre sindacati, le maestranze della Salamini, azienda leader nella produzione di mobili per ufficio, che all'epoca impiegava qualcosa come un migliaio di maestranze fra operai e impiegati, occuparono lo stabilimento. Fra gli operai addetti alle presse c'era mio padre.
Un lavoro infame quello che
papà svolgeva nella
fabbrica, una attività che gli aveva procurato un danno permanente all'udito a causa dell'eccessivo rumore presente nei capannoni delle officine meccaniche.
La vertenza Salamini, ricca di eventi drammatici,
caratterizzò lo scenario economico e sociale della città per un anno intero, fino al giorno in cui la fabbrica
fu dichiarata fallita dal Tribunale e il macchinario smantellato e venduto. Mille persone rimasero senza
lavoro. Fra loro c'era anche
lui, mio padre.
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Il 2 dicembre, ad Avola, in provincia di Siracusa, due operai furono uccisi e una decina d'altri
lavoratori gravemente feriti durante una manifestazione di braccianti agricoli colpiti dai proiettili sparati dai mitra e moschetti della polizia.
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Il 3 dicembre in tutta Italia fu proclamato lo sciopero generale. A Parma la gente si riversò in Piazza
Garibaldi manifestando lo sdegno della parte migliore della città, allo stesso modo di quegli Arditi del Popolo che nel 1921 si mobilitarono, innalzando barricate e trincee, per opporsi al terrorismo squadrista di Italo Balbo animato dalla voglia di mettere a ferro e fuoco la città. Scioperi e manifestazioni di protesta proseguirono per tutto l'autunno e l'inverno.
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Il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, una manifestazione di protesta organizzata da studenti, operai, e militanti della sinistra in occasione
dell'inaugurazione della stagione lirica, mise fine al sessantotto a Parma.
Qualche mese prima, il 20 agosto, i carri armati sovietici avevano occupato con la forza delle armi la Cecoslovacchia schiacciando sotto il peso dei cingoli le speranze del nuovo corso democratico inaugurato con la "Primavera di Praga".
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Il 25 agosto, quattro giorno dopo l'invasione della Cecoslovacchia, misi piede sul marciapiede della stazione ferroviaria dopo quattordici mesi di naia vissuti
in malo modo a Belluno.
Avevo vent'anni e nemmeno una lira in
tasca. Possedevo un foglio di congedo militare illimitato e un diploma
di scuola magistrale: troppo poco per assicurarmi un avvenire sicuro.
Trovare un lavoro al più presto era
ciò che mi proponevo. Mio zio Annibale, di professione infermiere necroforo presso l'Istituto di Anatomia Patologica, mi suggerì d'iscrivermi alla Scuola per Tecnici di Radiologia Medica.
Agli inizi di ottobre, insieme ad altri quattordici allievi, mi ritrovai seduto dietro un banco di scuola e ci rimasi per tre anni: tanto durò l'insegnamento per conseguire il diploma.
Sino allora ero vissuto sotto una campana di vetro. Un mondo fantastico il mio, frutto di una
cultura, quella cattolica, che mi aveva truffato. D'improvviso mi
ero trovato catapultato nella vita reale, impreparato a viverla. Anche la ragazza non l'avevo più, durante il periodo di lontananza Alice, quella che pensavo dovesse essere la donna della mia vita, si era
innamorata di un altro e aveva messo
fine alla nostra storia.
Che cosa c'è di più delicato del primo amore e di più struggente nel non averlo potuto vivere fino in fondo?
La verità è che Alice mi aveva lasciato per
mettersi insieme con ragazzo più smaliziato
e sveglio di quanto ero io. Non l'avevo mai
scopata per colpa dei severi principi
cattolici con cui ero stato educato.
Avevo vent'anni ed ero vergine.
Cazzo! Mi domando come era potuto accadere,
boh! Ma non lo consideravo un problema, coglione com'ero, pensavo fosse normale per un ragazzo della mia età. Qualche sega me la sparavo, anche se lo consideravo disdicevole per il tipo di educazione che avevo ricevuto. Di solito mi masturbavo nel cesso, lontano da occhi indiscreti, oppure la sera sotto le coperte quando nella solitudine della camera pensavo ad Alice di cui a tutt'oggi custodisco il nome nell'album dei ricordi insieme a qualche disco di vinile, un po' consumato, di quelli che saltano e frusciano sulle parole più belle e che eravamo soliti ascoltare stando abbracciati.
Catapultato in una società completamente diversa da quella che avevo lasciato,
il giorno che ero partito per il servizio militare, rimasi frastornato da quanto mi succedeva tutt'intorno. Poco per volta ripresi a intrattenere rapporti con gli amici di un
tempo: Cesare e Leonardo in particolare, entrambi iscritti alla facoltà di Economia e Commercio. Cominciai a frequentare gli ambienti universitari prendendo parte alle assemblee di studenti e operai, alle manifestazioni e agli scontri con le forze dell'ordine.
Smisi di frequentare gruppi e associazioni di cattolici. Mi sentivo un
pesce fuor d'acqua in mezzo a loro. Li sentivo diversi, forse perché era germogliata
in me la voglia di ribellione contro una società che
avvertivo ingessata e ipocrita.
Mi proposi di dare maggiore significato alla mia esistenza riempiendola di nuovi valori. Una pretesa utopica quella di lottare per costruire un mondo migliore "un paradiso terrestre", ma come tanti altri ragazzi della mia generazione anch'io mi ero messo in testa una strana idea: cambiare il mondo.
Non mi vergogno ad affermare che ho vissuto un lungo sogno, ma sognare è stato bello!
Stare in mezzo a ragazzi e ragazze del Movimento Studentesco mi faceva sentire bene, ero come rinato. Cambiai anche modo di vestirmi, cessai di indossare giacca e cravatta e cominciai a portare jeans, maglione, e col sopraggiungere dell'inverno mi comperai l'eskimo, un cappotto militare con l'interno di pelo bianco che furoreggiava fra i contestatori. Mi lasciai persino crescere la barba e anche i capelli, prendendo a modello la capigliatura dei Beatles che avevo sempre preferito alla musica sgraziata dei Rolling
Stone.
Ciò che si verificò il 26 dicembre alla inaugurazione della stagione operistica fa parte della storia del sessantotto della città. A essere sincero fu l'ultimo atto di una stagione feconda di nuove idee e di utopie che cambiarono radicalmente il tessuto sociale della città.
Quella sera c'ero anch'io fra la folla di contestatori che assediava il Teatro Regio per protestare contro la rappresentazione della prima opera della stagione lirica, e non c'ero capitato per caso.
La Parma bene, quella delle ricche famiglie borghesi, all'epoca proprietarie della maggior parte dei palchi del teatro, tanto da farlo assomigliare a un Teatro di Corte, ancora una volta si riversò nel tempio della lirica per assistere alla prima rappresentazione.
Il questore in previsione di una serata di contestazione, memore di quanto era accaduto qualche giorno addietro alla Scala di Milano,
in occasione della apertura della
stagione lirica per Sant'Ambrogio, aveva predisposto un accurato servizio d'ordine.
Poliziotti e carabinieri, vestiti in borghese, si erano mescolati in mezzo al pubblico nella platea del teatro e nei palchi, pronti a intervenire in caso di necessità, altri erano mischiati in mezzo a noi contestatori, sul marciapiedi
all'ingresso del teatro. Il grosso delle forze di polizia e carabinieri erano celati dentro i furgoni e le camionette in sosta nel
Piazzale della Pilotta, distante solo qualche centinaia di metri dal teatro, pronti a intervenire in caso di necessità.
Dal primo pomeriggio, in città, era corsa voce di una sorta di contestazione organizzata da studenti, operai e militanti della sinistra in opposizione a tutti coloro che avrebbe presenziato alla serata vestendo smoking e
abiti da sera. Ne avevo avuto notizia da Cesare quando lo avevo incontrato alla Biblioteca Palatina dove entrambi eravamo soliti recarci a studiare.
Alle otto di sera, in compagnia di un centinaio di manifestanti, sostavo sul marciapiede davanti al Teatro Regio in attesa che
sopraggiungesse qualche signora ingioiellata, accompagnata dal marito, venuta lì per ostentare la propria ricchezza piuttosto che ascoltare la musica di
Stiffelio, opera lirica del Cigno di
Busseto, rappresentata quella sera.
La notte era umida e faceva un freddo cane. Da qualsiasi parte giravo lo sguardo scorgevo uniformi di carabinieri pronti a intervenire. D'improvviso un landò d'altri tempi, trainato da un paio di cavalli neri, con due cocchieri in
livrea alla guida della vettura, sopraggiunse da Via Garibaldi preceduto da uno strano rumore che si rivelò essere quello degli zoccoli dei cavalli.
La carrozza arrestò la corsa davanti al marciapiede, poco distante dal punto in cui ero fermo. Un uomo e una donna vestiti in abiti da sera, per niente indispettiti dalla nostra presenza, scesero dalla vettura e fra lo stupore generale s'incamminarono verso l'ingresso del teatro
presi di mira da insultati, improperi e ingiurie.
Si era trattato di una provocazione, simpatica, che avrebbe potuto degenerare in rissa, ma che non si verificò soltanto perché a quell'ora eravamo
pochi contestatori a presidiare l'ingresso del teatro, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere.
Alla spicciolata sopraggiunsero le prime donne impellicciate e ingioiellate accompagnate da uomini manichini bardati con smoking sotto il cappotto. Polizia e carabinieri misero in atto un cordone di protezione. Lasciarono libera una lunga striscia di terreno che dalle colonne situate all'ingresso del teatro giungeva sino al marciapiedi della strada dove affluivano le autovetture che scaricavano le persone
in procinto di recarsi a teatro.
Inizialmente ci limitammo a intonare cori di disapprovazione, rivolgendo l'attenzione verso le signore, ingioiellate con pellicce lunghe fino ai piedi,
rovesciandole addosso parole di spregio ed epiteti offensivi.
Ero eccitato, molto eccitato, essere lì in mezzo agli altri contestatori mi
procurò una forte emozione. Prima di quella sera avevo preso parte soltanto a cortei di operai e manifestazioni studentesche, non ero mai stato a contatto con poliziotti e carabinieri, ma ero pronto a fare
a botte con chiunque se fosse stato necessario.
Il primo incidente si verificò poco dopo le otto e mezza allorché un ufficiale dei carabinieri, vestito in alta uniforme, con mantello rosso e nero, uscì da
un'autovettura arrestatasi al bordo del marciapiede. Altero nei movimenti, come lo
poteva essere soltanto il comandante della legione carabinieri, perché di questo si trattava, s'incamminò fiero e sprezzante verso chi come me presidiava l'ingresso del teatro dirigendosi con passo sicuro verso la scalinata, fino all'ingresso del teatro.
Paolo Bocchi, allora studente liceale, adesso stimato chirurgo, lo stesso che qualche anno fa mi ha operato al culo di emorroidi, gli si fece incontro insieme a un gruppo di contestatori e lo apostrofò a male parole. Ne nacque un piccolo tafferuglio presto sedato dalle forze dell'ordine.
L'atmosfera incominciò a surriscaldarsi, molti fra gli spettatori intenzionati a raggiungere il teatro per assistere alla prima di Stiffelio preferirono proseguire in automobile o a piedi rinunciando allo spettacolo, altri invece entrarono nel teatro senza difficoltà perché vestiti con abiti normali.
D'improvviso, al grido di
"Borghesi! Borghesi! Ancora pochi
mesi", incominciarono a piovere uova all'indirizzo di
alcune persone vestite in abito da sera
in procinto d'entrare nel teatro. Una
doppia fila di carabinieri si misero a difesa dei malcapitati mostrando segni di irrequietezza, cercando in tutti i modi di allontanarci dalla porta d'ingresso del teatro.
Durante i parapiglia scaturiti dal lancio di uova e dai tafferugli che ne seguirono non feci
troppo caso alla gente che mi stava attorno, tanto meno mi accorsi della presenza di Antonella che strillava come una
matta oltre il doppio cordone di carabinieri che formavano una passerella per l'accesso al teatro.
Stava mischiata nella folla in prossimità di una delle colonne erette sul pavimento della scalinata, all'ingresso del teatro, lontano dal punto in cui Cesare e io urlavamo slogan contro le signore in pelliccia.
Percepii la presenza di Antonella quando dal suo braccio partì un uovo che andò a colpire al capo uno dei melomani impegnati a guadagnare l'ingresso del teatro. Girai lo sguardo nella direzione da cui era partito il lancio, curioso di scoprire l'autore del gesto, e incontrai il suo volto.
Antonella si trovava vicino a Roberto Taverna, riconoscibile per il megafono che teneva stretto nella mano e reggeva le fila della contestazione. Poco distante c'era Paolo Bocchi e accanto a lui riconobbi
Jajo, intento ad azzuffarsi con un maresciallo dei carabinieri deciso a trascinarlo via da lì, ma con scarso successo.
Una sciarpa colore lampone pendeva dal montgomery che portava addosso Antonella. Il viso era impreziosito da lunghi capelli neri e lisci che le fluivano sulle spalle rovesciandosi da una parte all'altra a ogni movimento del capo. Rimasi a guardarla rapito dal suo sguardo come può esserlo chi è rimasto vittima di un incantesimo, disorientato dalla bellezza che sprigionava il suo volto.
Antonella mostrava il cipiglio di chi è adirata, ma nel contempo esibiva una sensualità fuori
dal comune, come rare volte mi era capitato di scorgere sul volto di una donna. Erano trascorsi otto anni dal giorno in cui la mia famiglia e io avevamo traslocato dalla casa dove Antonella risiedeva, e da allora non l'avevo più incontrata.
Per nulla impaurita dalle esagitate spinte dei carabinieri continuò, impavida, a effettuare lanci di uova addosso ai melomani che si dirigevano verso l'ingresso del teatro rovinandogli i preziosi abiti di sartoria.
Erano trascorse solo poche settimane dai tragici fatti di
Avola, quando fra mandorli e piante d'agrumi due braccianti agricoli erano stati uccisi dal fuoco
della celere. Scorgere spettatori e invitati dirigersi verso l'ingresso del Regio per assistere alla prima dell'opera lo consideravamo disdicevole alla luce di quanto era successo ad
Avola. Inoltre erano molte le famiglie in città che come la mia avevano trascorso un Natale
dimesso. Soprattutto quelle dei lavoratori della Salamini, azienda in crisi, le cui maestranze erano in attesa di un segnale positivo da parte dei Ministeri interessati con cui i sindacati stavano intavolando trattative per il salvataggio e il rilancio della azienda, una delle più importanti di Parma e provincia.
Poco prima delle nove alcune autovetture tentarono di forzare il muro di folla che occupava per intero la sede stradale davanti al teatro. Una delle auto, il cui conducente aveva rischiato d'investite qualche dimostrante, si trovò circondata e la carrozzeria presa a calci e pugni dai contestatori. Il conducente, stizzito, ingranò la marcia e tentò di aprirsi un varco nel tentativo di fuga. La macchina, una Fiat 125, si allontanò in direzione di Piazzale della Pace inseguita da un gruppo di giovani, poi scomparve alla mia vista.
Enzo Baldassi, sindaco della città, alla guida di una giunta di socialisti e comunisti, uscì dal portone
principale del teatro vestito in smoking.
Il viso appariva infreddolito e arrossato e si mostrò abile nell'accettare il dialogo con i rappresentanti del Movimento. Ma fu presto sommerso dalle grida e da lanci di uova, nonostante Taverna, uno dei leader storici degli studenti, col megafono appiccicato alle labbra, invitasse tutti quanti a lasciare parlare il sindaco. Ma Baldassi,
sgomento, tornò a rifugiarsi nel teatro scortato da urla, imprecazioni e lanci di uova.
I portoni d'ingresso del Regio, con l'inizio della rappresentazione, furono chiusi a eccezione di quello centrale dove alla spicciolata
seguitarono ad affluire gli spettatori ritardatari. Nel trambusto provocato dal defilarsi del sindaco persi di vista Antonella. Non la rividi più per il resto della serata e nemmeno nei giorni successivi quando ci furono altre manifestazioni e rimostranze contro gli spettacoli in scena al Teatro Regio.
Averla incontrata dopo tanto tempo, in quella particolare situazione, mi
diede un immenso piacere. Ne serbavo un ricordo lontano, di quando abitavamo nello stesso caseggiato,
nell'Oltretorrente, ed eravamo bambini. Scorgerla sul marciapiedi del Teatro Regio intenta a urlare frasi ingiuriose contro i poliziotti e i borghesi infilatisi nel teatro mi suscitò una forte emozione, come non mi succedeva da tempo. Dopo avere conosciuto Alice mi ero convinto che non avrei più trovato nessun'altra donna
pari a lei, invece come al solito sbagliavo.
Il viso di Antonella aveva mantenuto intatti i lineamenti di una bambola, gli stessi di quando era bambina. Un po' formosa la era sempre stata, ma la rotondità delle curve da quanto avevo potuto intuire, la rendevano provocante, certamente non solo ai miei occhi.
Sulla scalinata del teatro alcuni elementi di estrema destra, sopraggiunti a dare manforte alla gente che si recava a teatro, provocarono alcune scazzottature e niente di più. Taverna invitò gli studenti del Movimento e operai a non raccogliere le provocazione e proseguire nella contestazione.
Cercai ancora una volta fra la folla il volto di Antonella. Avrei voluto fermarla, salutarla, parlarle, dirle che anch'io ero lì, ma era svanita nel nulla. Quando Cesare mi sollecitò a tornarcene a casa lo seguii dappresso rammaricato per non averle parlato.
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Il 24 gennaio nel corso di un corteo organizzato dagli studenti delle scuole medie superiori per onorare la memoria di Jan
Palach, eroe cecoslovacco, datosi fuoco per protesta contro l'occupazione sovietica per rivendicare libertà del suo popolo, scoppiarono scontri fra militanti di sinistra e neofascisti in Via Mazzini.
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Il 25 gennaio dal Ponte di Mezzo partì un'altra manifestazione. Stavolta a organizzarla furono i giovani della Democrazia Cristiana. Un corteo di duecento persone percorsero le vie del centro per deporre una corona di fiori davanti al Monumento del Partigiano in Piazzale della Pace. Un gesto, condivisibile nelle intenzioni, ma considerato
da taluni una provocazione anticomunista, così almeno venne
giudicato dal Movimento.
Erano da poco passate le sei del pomeriggio. Insieme ad altri compagni avevamo formato una barriera umana attorno al Monumento al Partigiano, intenzionati a impedire ai
manifestanti democristiani di deporre la corona di fiori davanti al simbolo della lotta di liberazione.
Appena avvistammo il corteo, proveniente da Via Macedonio
Melloni, incominciammo a gridare "Avola!
Avola!" in ricordo dei braccianti uccisi soltanto un mese prima dalle forze di polizia. Poi qualcuno intonò "Bandiera Rossa".
Il muro di pelle umana plasmato con i nostri corpi non si aprì alla comparsa dei democristiani impedendo ai loro rappresentanti di depositare la corona di fiori davanti al monumento. Allora i partecipanti al corteo incominciarono a gridare "Praga libera!"
Polizia e carabinieri giunsero in soccorso del corteo dei democristiani. Un triplice squillo di tromba diede il segnale di carica alle forze dell'ordine appostate a breve distanza da noi
che stavamo assiepati intorno al Monumento del Partigiano.
Dopo il primo attacco dei carabinieri ci disperdemmo nelle strade limitrofe alla piazza. Inseguito dai carabinieri mi diedi alla fuga in Via Pisacane dove ha sede il Palazzo del Poste. A comporre il muro umano c'era anche Tazio, un operaio che durante gli scontri
che ne seguirono fu arrestato e condotto in carcere dalle forze dell'ordine.
La maggioranza dei miei compagni si disperse in Via Melloni e ai due lati di Via Garibaldi. I più facinorosi del Movimento passarono alla controffensiva scagliando sassi e altri oggetti contro le granate lacrimogene sparate dai carabinieri. I tafferugli durano poco tempo, dopodiché i democristiani, scortati dalla forze dell'ordine, riuscirono a depositare quando era rimasto della corona di fiori davanti al monumento.
Prima che scoppiassero i disordini avevo scorto Antonella in compagnia di un gruppo di studenti del Movimento. Stava a poca distanza dal punto in cui avevo preso posto nel cordone umano. Svelai la mia presenza sventolando la mano cercando di attirare la sua attenzione. Sorpresa dal gesto rimase immobile, incerta sul da farsi, poi mi corse incontro e mi gettò le braccia al collo.
- Ma dai, sei proprio tu.
Cazzo! Lorenzo! Quanto tempo è passato eh! Non ti avevo riconosciuto, sono sincera. Hai una barba così
scura e spessa...
Ma ti sta bene, sai. E poi i capelli lunghi, tutti scompigliati, ti conferiscono un aspetto maturo.
- Tu invece sei sempre
affascinante. - dissi con un certo imbarazzo.
- Cosa ci fai qui? - chiese.
- Beh, quello che ci fanno tutti gli altri.
- Sapevo che frequentavi gli ambienti cattolici.
- Io...
- Ma dai, sto scherzando. Mi fa molto piacere rivederti. Ma nella vita che fai?
- Studio.
- A che facoltà sei iscritto?
- A nessuna. Frequento la scuola per tecnici di radiologia medica. Ho un diploma magistrale, ma non so che farmene.
- Io sono iscritta alla facoltà di Lettere, ma sono maledettamente indietro con gli esami. Pazienza!
I compagni con cui stava insieme la trascinarono in un'altra direzione. Mi salutò con un cenno della mano e cominciò a inveire contro i democristiani determinati a deporre la corona di fiori davanti al monumento che invece lei e io stavamo picchettando.
Stare a parlare con Antonella, seppure per pochi istanti, mi fece immenso piacere, e poi anche lei
mi sembrò contenta nel vedermi. Mischiato in fondo al suo sguardo mi sembrò di percepire un silenzio lontano, e le pupille dei suoi occhi sembravano volermi comunicare qualcosa d'importante, ma
ingenuo com'ero non riuscii a intuire cos'era.
Al grido di "Tazio Libero!", il corteo di militanti della sinistra si era radunato davanti al Teatro Regio per raggiungere il carcere di San Francesco dove Tazio, arrestato nel pomeriggio durante gli scontri in prossimità del Monumento al Partigiano, era stato imprigionato.
Stavolta fu Antonella ad avvicinarmi col suo atteggiamento sbarazzino. Era sola, senza uomini intorno a farle da cani da guardia. Durante il percorso del corteo parlammo a lungo di quelle che erano le nostre aspirazioni, delle cose che avremmo desiderato realizzare nella vita, ma ancora di più ci guardammo a lungo negli occhi portando avanti un gioco fatto di lunghi sguardi dove oltre al silenzio c'era qualcos'altro di molto speciale.
Averla accanto, condividere con lei
un'esperienza di militanza politica mi rese felice come non mi succedeva da tempo. Non mi sembrò vero che Antonella avesse preferito la mia compagnia a quella di tutti gli uomini che la fermavano di continuo per la strada, anche soltanto per salutarla.
Il corteo si sciolse davanti alla cinta muraria del portone d'ingresso del carcere di San Francesco. Ancora una volta si levò il grido "Tazio Libero!", poi ci disperdemmo in piccoli gruppi.
A breve distanza dal carcere, mentre percorrevamo borgo Guazzo in direzione di Via Garibaldi, Antonella mi spiaccicò una proposta.
- Adesso che fai, te ne torni a casa?
- Penso di sì, sono quasi le undici, domani ho scuola.
- Ma dai, è presto, non ti piacerebbe ascoltare un po' di musica in mia compagnia? Conservo una intera collezione di
trentatré giri. Ti piace Tenco? ed
Endrigo?
- Sì, certo, ma a casa tua c'è tua madre e anche tuo padre, no?
- Ma cosa hai capito, non andiamo a casa mia. Ho le chiavi di una stanza, l'abbiamo presa in affitto e attrezzata con alcuni amici. Ci andiamo di tanto in tanto ad ascoltare musica
e... ti va se andiamo là?
Rimasi sorpreso dalla proposta, timido com'ero, non mi riuscii di
biascicare una sola risposta decente.
- Ma... sì. Insomma...
- Cazzo! Non ti metterai a fare delle storie, eh! Mica ti mangio, io.
- No, lo so, ma è tardi, non credi?
- Ascoltiamo qualche disco, poi torniamo a casa,
dai, non fare lo schifiltoso. - disse afferrandomi la
mano.
Mi ritrovai a percorrere il dedalo di strade in direzione
dell'Oltretorrente, dove Antonella possedeva il monolocale, con il cazzo in piena erezione.
Mentre camminavo la
cappella strusciava di continuo contro la coscia impedendomi una andatura sciolta. Antonella camminava al mio fianco tenendomi sottobraccio, con la spalla addossata alla mia, piuttosto loquace nel parlare. A dire il vero non l'ascoltavo, annuivo col capo mentre pensavo a cosa sarebbe potuto accadere quando avremmo messo piede nell'appartamento.
Desideravo baciarla, al più presto, questo sì, e poi? Non volevo fare la figura del
coglione, ma nemmeno ero preparato a fare l'amore con lei. Non avevo preso in esame questa evenienza, e cominciai a domandarmi se avevo le mutande pulite. Antonella mi piaceva da morire, era questa l'unica certezza che avevo.
Una volta sotto le volte della Pilotta ci ritrovammo a percorrere Ponte Verdi. Dall'altra parte del torrente i gruppi di case di stampo medievale stringevano i borghi fino a strangolarli.
L'appartamento era situato al primo piano di un caseggiato di Borgo
Bosazza, poco distante dai magazzini della
Standa.
- Mi raccomando! Non fare rumore quando saliamo le scale. Nella parte comune manca la luce e gli inquilini, specie la vecchia arpia che occupa il pianterreno, a quest'ora saranno ancora svegli. Se facciamo baccano domani
sarei costretta a sorbirmi le loro lamentele.
- Va bene, non ti
preoccupare.
La scala che conduceva al primo piano della casa prendeva luce dal patio. Salimmo i gradini tentoni e
inciampai più di una volta provocando l'ira di Antonella per le mie distrazioni.
- Accidenti! Fai piano. - disse sottovoce.
- Va bene, non ti preoccupare. - dissi aggrappandomi al passamano per non cadere.
L'appartamento era un monolocale di pochi metri quadrati privo di servizi igienici. Il gabinetto era in comune con gli altri inquilini nel cortile della casa. In compenso
la stanza era equipaggiata di un lavandino, un letto matrimoniale, e una stufa. Un giradischi trovava posto sopra un tavolino con ammonticchiati numerosi
trentatré e quarantacinque giri. Una abat-jour diffondeva una luce soffusa, mentre le pareti erano tappezzate con poster
dei Beatles e Rollig
Stone.
- Fa molto freddo qui. - dissi dopo avere messo piede nel locale.
- Non ti preoccupare, accendo la stufa a gas e in poco tempo ci sarà caldo a sufficienza.
Antonella prese un fiammifero di legno da una scatola e sfregò la capocchia sulla superficie del muro. Quando il fiammifero prese fuoco l'avvicinò al bruciatore a gas della stufa e d'incanto un grossa fiamma di colore azzurrino colorò di riflesso il pavimento di cotto.
- Ti piace qui?
- Carino. - dissi guardandomi
intorno affascinato dal copriletto colore
lampone.
- Siediti, dai, non stare lì in piedi - disse facendomi cenno si sedere sul bordo del letto di fronte al giradischi dove aveva preso posto anche lei.
- Che musica preferisci ascoltare?
- Non lo so.
- L'avrai una preferenza, no? Ti piacciono i Beach
Boys? Oppure vuoi ascoltare Carlos
Santana? No? Allora che ne pensi dei
Mama's & Papa's?
- Preferisco ascoltare questo disco. - dissi indicando un trentatré giri di Francis Lai con incise le musiche della colonna sonora del film "Un uomo e una donna " di
Lelouch.
- Non pensavo fossi interessato a questo genere di musica.
- Ho un debole per tutto ciò che è francese.
- Del genere?
- Françoise Hardy, Michel
Polnareff, Jacques Brel, Moustachi.
- Va bene, dai, adesso ti accontento. Ascoltiamo questo
trentatré! Non so proprio come ci abbia potuto finire qui. Sarà di proprietà di uno degli amici con cui condivido il locale.
Antonella tolse dalla custodia il disco
in vinile e lo mise sul piatto del giradischi. Dopo qualche istante la musica di Francis Lai si diffuse nell'ambiente e mi sciolsi.
- Ma davvero non hai visto il film "Un uomo e una donna"?
- No, che c'è di strano?
- Niente.
Quel film l'avevo visto al cinema in più di una occasione in compagnia di Alice. Insieme ci avevamo pure pianto dietro. Mi sembrò persino strano ascoltare quel tipo di musica in compagnia di una ragazza diversa da lei.
- Che ne dici se ci togliamo il cappotto?
Adesso c'è caldo qui dentro, no?
Levai di dosso l'eskimo e Antonella fece lo stesso liberandosi del montgomery.
- Consegnamelo a me. - disse indicando l'eskimo. - Lo sistemo sulla sedia, così siamo più liberi.
Nel momento in cui tolse il montgomery, liberando le forme tonde del suo corpo, coperte soltanto da un maglione aderente, mi uscì dalla mente Alice. Non ricordo cosa accadde dopo, quello che rammento è che mi trovai abbracciato ad Antonella sopra il letto mentre la musica di Francis Lai ci teneva compagnia.
Baciare lo sapeva fare meglio di me. Prima d'incontrare Antonella avevo scambiato baci soltanto con Alice, e neanche molto bene. D'improvviso mi sentii penetrare la bocca dalla sua lingua e la cosa mi sorprese, era una esperienza del tutto nuova per me, ma assai
gradevole. Contraccambiai il gesto depositando anch'io la punta della lingua nella sua bocca lasciando che la succhiasse, dopodiché seguitammo a baciarci a lungo, fino allo sfinimento, mentre
l'uccello mi doleva per la troppa eccitazione.
Antonella mi avvolse le mani intorno al capo, affondò le dita nei capelli stirandoli fino a farmi male, poi mi attirò a sé sdraiandosi sul letto. Le tette premevano dure contro il mio petto mentre ci arrotolavamo sulla trapunta di lampone baciandoci senza un attimo di sospensione, poi la musica terminò.
- Togliti i vestiti, dai. - disse trascinando il bordo della mia camicia oltre la cinghia dei pantaloni.
Mi liberai del maglione e della camicia, poi delle braghe e
restai con le sole mutande e la canottiera di lana.
Antonella rimase con addosso il reggiseno e un paio di mutandine bianche con disegnati dei fiorellini colorati. Prima di rimettersi distesa sul letto si sporse verso il braccio del giradischi e stavolta mise sul piatto un disco di
Tenco.
- Vieni qua. - disse infilandosi sotto le lenzuola, allargando le braccia verso la mia direzione.
Andando lì ero convinto che Antonella mi avrebbe fatto ascoltare un po' di musica condita da qualche bacio, tanti sguardi e lunghi silenzi, e nulla più, invece non fu così. Come due animali in calore cominciammo a fare uso in maniera spontanea del linguaggio dell'amore. E poi non avevo bisogno di parole per cancellare lo spazio occupato dai miei sogni. Alice ormai era lontana, mentre Antonella con il suo corpo caldo era accanto a me.
Tutt'a un tratto la sua mano attraversò l'elastico delle mie mutande e arrivò a stringere il
cazzo. Lasciai che se ne prendesse cura e anch'io spostai le dita sotto lo spessore delle sue mutandine. Raggiunsi il monte di venere e mi sembrò di essere nel giardino dell'Eden.
Il pube abbondava di peli. Non ci misi molto a trovare le labbra della
vagina da cui colavano filamenti dei suoi umori. Cominciammo a toccarci delicatamente lasciando alle nostre dita il compito di trasmetterci un ambito piacere.
Toccarci in quel modo, senza fretta, arricchì il mio e il suo desiderio. Tolse il reggiseno e mi mostrò le tette come si mostra un trofeo. Erano diverse da quelle di Alice, più voluminose, forse.
Sfiorai i capezzoli, dalle areole piuttosto larghe, con l'estremità delle dita, meravigliandomi di quanto si inturgidissero al tocco dei polpastrelli. Lasciai cadere le labbra sull'areola di un capezzolo e incominciai a succhiarlo e rinnovai il gesto sull'altro.
Antonella non stava più nella pelle e cominciò a fremere di piacere.
- Sì... Sì... Mi fai godere. - ripeté più volte mentre mordicchiavo un capezzolo, raddoppiato di volume a contatto con i denti, mentre con la mano le pizzicavo l'altro capezzolo.
Percepire sulla pelle il calore del suo corpo incollato al mio, ascoltare i lamenti della sua voce, cogliere fra le dita l'umore che scaturiva abbondante dalla
vagina mi trasmise una forte eccitazione e un piacere che con Alice non avevo mai provato.
- Hai un preservativo? - sbottò cogliendomi di sorpresa.
- No, perché?
- Non sopporto d'averlo dentro senza preservativo. Fortuna che ieri ho terminato le mestruazioni e non corriamo alcun pericolo. Ma dopo c'è sempre qualche goccia di sperma che mi cola giù nelle mutande insudiciandole e questo m'infastidisce non poco, lo capisci no?
In quel momento, non so perché, ripensai ai gesti dell'amore che Alice e io eravamo soliti scambiarci, al piacere dello stare insieme, ai nostri incontri al caffè seduti
uno di fronte all'altra a consumare una cioccolata calda, alle lacrime di gioia che spesso accompagnavano i nostri incontri, alle carezze lente e al tempo che si estendeva e passava rapido stando insieme a lei.
Antonella si liberò delle mutande facendole scorrere sotto le caviglie. Me la ritrovai calda, con le cosce aperte sotto le lenzuola, vogliosa di essere scopata. Smisi di carezzarle il corpo, mi misi cavallo sopra di lei, inarcai la schiena, e la penetrai.
Cazzo! Se lo ero emozionato! Non l'avevo mai fatto e non sapevo come comportarmi. Lasciai che la cappella trovasse da sola la strada facilitata nel suo compito dall'abbondanza d'umore che bagnava la
vagina.
Il momento in cui la penetrai mi sembrò il più bello della mia vita. La mucosa umida della
vagina mi avvolse il cazzo d'intorno stringendolo per bene. Cominciai a mettere in moto il culo eseguendo movimenti lenti mentre il cuore sembrava scoppiarmi per l'emozione.
- Sì, così continua
così. - disse Antonella - Mi fai
godere. Bravo!
Dovevo sembrarle goffo e maldestro, ma le sue parole servirono a rincuorarmi dandomi fiducia. Avevo una dannata voglia d'amore e Antonella me lo stava offrendo, alla sua maniera.
I nostri corpi non si staccarono per lungo tempo uno dall'altro. Entrambi eravamo madidi di sudore, poi Antonella sollevò le gambe e accostò i calcagni ai miei glutei accompagnando i movimenti del cazzo durante le penetrazioni. Non volevo venire troppo presto, per questo facevo di tutto per non dare ascolto ai lamenti che le uscivano dalla bocca mascherati solo in parte dalla musica di
Tenco.
Quando la musica cessò e la puntina del giradischi si fermò in modo definitivo al margine del disco di vinile ero prossimo all'orgasmo e glielo dissi.
- Sto per venire. Sto per venire...
- Vienimi dentro. Non uscire...
non uscire, ti prego tienilo dentro. Sì...
Sì... - ansimò, stringendomi forte a sé quando incominciai a tremare in tutto il corpo adagiandomi sopra di lei.
- Sì... Sì... Vieni...
Proseguimmo a fare l'amore ancora per un paio d'ore. Alle due di notte abbandonammo l'appartamento e l'accompagnai a casa.
Davanti al portone della sua abitazione l'abbracciai un'ultima volta prima di salutarla.
- Ci vediamo domani? - dissi.
- Domani? Non credo
proprio.
Domani esco con Valerio, il mio
fidanzato. Magari ci si vede un'altra
volta, chissà. Ciao! - disse lasciandomi pietrificato davanti al portone.
Antonella si allontanò con il sorriso sulle labbra e per molto tempo non la rividi più.
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Il 14 febbraio 1969 al Tribunale di Parma fu depositata la sentenza di fallimento della Salamini.
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Il 6 Marzo, all'arrivo delle prime lettere di licenziamento, gli operai
della Salamini bloccarono il traffico sulla Via Emilia.
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Il 7 marzo duecento operai
della Salamini assediarono la linea ferroviaria Milano-Bologna e fermarono la circolazione dei treni. Verso sera giunse in città il Battaglione Celere di Padova.
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Il 23 agosto, alle sei di mattina, dopo otto mesi di occupazione la Salamini fu sgomberata dalle forze dell'ordine e gli occupanti cacciati in strada.
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Il 12 settembre alcuni dipendenti della Salamini, e fra loro mio padre, irriducibile nel manifestare il legame che lo legava alla fabbrica, collocarono una vecchia corriera di fronte al muro di cinta dello stabilimento intenzionati a proseguire nella lotta contro la chiusura della fabbrica.
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Il 23 dicembre, all'alba, con la protezione d'ingenti forze di polizia, iniziò lo smantellamento
dei macchinari alla Salamini.
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Ormai sono parecchi anni che non succede nulla in città. Parma è sorda, affetta da mutismo, ma spero che non
la rimanga per sempre. Quello che è certo è che il sessantotto ha prodotto dei cambiamenti radicali nella coscienza della gente portando a compimento una vera e propria rivoluzione culturale, cominciata dal cambiamento dei costumi, alla musica, al cinema, all'abbigliamento, alle idee, alle istanze, ai diritti, alla presa di coscienza di quei valori di libertà e solidarietà che molti giovani d'oggi sembrano non apprezzare, senza comprendere che altri prima di loro hanno lottato per conquistarli scontrandosi contro una cultura prepotente e oppressiva.
Mentre scrivo queste parole sullo schermo del televisore compaiono le immagini della fiaccola olimpica, la stessa strappata qualche settimana fa alla tedofora azzurra Eleonora Berlanda da parte di quattro sprovveduti ragazzi a Trento. Allora mi tornano in mente le parole di Louis
Malle, regista francese della Nouvelle
Vague, fra i miei preferiti, che un giorno ebbe a dire: " Ci dovrebbe essere un maggio 1968 ogni quattro anni. Sarebbe una catarsi, meglio delle Olimpiadi". Ma per molti Malle era soltanto un grande
illuso.
Vedrai
vedrai
(Luigi Tenco)
Quando
la sera tu ritorni a casa
non ho neanche voglia di parlare
tu non guardarmi con quella tenerezza
come fossi un bambino che rimane deluso
Si lo so che questa non è certo la vita
che hai sognato un giorno per noi
Vedrai
vedrai vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà
Vedrai vedrai che non sei finito sai
non so dirti come e quando
ma vedrai che cambierà
Preferirei
sapere che piangi
che mi rimproveri d'averti delusa
e non vederti sempre così dolce
accettare da me tutto quello che viene
Mi fa disperare il pensiero di te
e di me che non so darti di più
Vedrai
vedrai vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà
Vedrai vedrai che
non sei finito sai
non so dirti come e quando
ma vedrai che cambierà.
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