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ROSETTA
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
La
notizia di una vasta operazione di
rastrellamento eseguita sulle montagne
intorno a Corniglio e Monchio delle
Corti, messa in atto dalle truppe
tedesche affiancate da tre compagnie di
Camice Nere, era giunta in città poche
ore dopo l'inizio dei combattimenti.
Le indicazioni, seppure
frammentarie delle staffette, avevano
messo in apprensione i membri del
Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N)
riuniti in gran segreto a Palazzo
Conforti. Nessuno in città sapeva per
certo quale sorte fosse toccata ai
distaccamenti partigiani che agivano
nella zona dell'Appennino Parmense a
cavallo con i territori della Lunigiana,
ma i presagi erano foschi.
Soldati tedeschi e Camicie
Nere avevano messo a ferro e fuoco
diversi casolari nell'alta Val Parma
torturando e dando la morte a intere
famiglie. Lo avevano fatto per
rappresaglia, infierendo sulla
popolazione inerme, colpevole secondo i
loro informatori di avere dato ricovero
ai ribelli.
A dispetto del vasto
impiego di uomini, messi in campo dal
comando tedesco e dalle Camicie Nere, la
maggioranza delle bande di partigiani si
era sottratta all'accerchiamento.
Numerosi ribelli erano caduti durante i
combattimenti, mentre una quindicina
erano stati catturati dalle milizie
nazifasciste.
I traditori della patria
fatti prigionieri, perché così erano
considerati i partigiani dai fascisti,
erano stati caricati sui camion e
trasportati in città per essere
rinchiusi nelle carceri di San
Francesco. Fra i partigiani catturati
per essere interrogati dalla polizia
segreta c'era anche Veraldo, l'uomo di
Rosetta.
Non era la prima
volta che Veraldo prendeva parte a un
combattimento armato. Soltanto qualche
settimana prima, insieme con alcuni
combattenti della formazione partigiana
di cui faceva parte, era andato
all'attacco del presidio fascista di San
Michele Tiorre costringendo le Camicie
Nere alla fuga. Prima ancora aveva
partecipato all'occupazione del paese di
Traversatolo, disarmando i carabinieri
della locale stazione requisendo le armi
e le munizioni di cui era dotato il
presidio.
Nella sua militanza
partigiana Veraldo non aveva mai ucciso
nessuno, pur avendo preso parte a più
di una operazione di combattimento, ma
non si sarebbe sottratto a questo
compito se gli fosse capitata
l'occasione di mandare all'altro mondo
qualche fascista o soldato tedesco.
La notizia del
rastrellamento eseguito dai nazifascisti
sulle montagne si era diffusa in un
baleno in città. Rosetta ne era venuta
a conoscenza dalla moglie di un
partigiano che combatteva nella medesima
banda di Veraldo. Fino all'ultimo aveva
sperato che il proprio uomo fosse fra
quelli sfuggiti all'accerchiamento e
avesse trovato rifugio in Lunigiana.
Quando le era stato comunicato che
Veraldo faceva parte del gruppo di
partigiani imprigionati nelle carceri
cittadine, era stata colta da malore ed
era svenuta.
Da quelle mura il suo uomo
non sarebbe mai uscito vivo. Rosetta lo
sapeva bene. Fascisti e nazisti erano
soliti torturare i prigionieri per
indurli a rivelare i nomi dei complici
con la promessa di una impunità che
invece non gli sarebbe mai stata
accordata, ma che avrebbe potuto
lusingare i prigionieri meno resistenti
alle torture.
Veraldo non avrebbe mai
tradito i compagni durante gli
interrogatori e di questo Rosetta ne era
sicura, ma aveva paura delle torture a
cui l'avrebbero sottoposto i fascisti
prima di farlo morire.
In città la maggioranza
della popolazione era a conoscenza dei
metodi di tortura cui venivano
sottoposti i prigionieri rinchiusi nelle
carceri fasciste. Si sapeva con certezza
che i partigiani catturati erano
soggetti a violenze indicibili. Ad
alcuni era negato il cibo e l'acqua per
molti giorni consecutivi per indurli a
collaborare. Altri, venivano rinchiusi
all'interno di celle piene di escrementi
dove, per la ristrettezza dello spazio,
era impossibile rimanere in piedi o
seduti. Mantenuti svegli per giorni e
giorni venivano sottoposti a continui
interrogatori per indurli a parlare. Ad
alcuni veniva messo il fuoco sotto i
piedi, introdotte schegge di legni sotto
le unghie delle mani e dei piedi, oppure
versata dell'acqua bollente sulla pelle.
Di sicuro a tutti i prigionieri venivano
inflitte percosse di ogni tipo.
I fascisti torturatori
davano l'impressione di eccitarsi alla
vista del sangue. Colpivano i carcerati
con qualsiasi cosa gli capitava fra le
mani: randelli, pugni di ferro e perfino
guanti da boxe. Ma c'era anche chi
conficcava nella carne dei prigionieri
la lama dei pugnali facendo l'atto di
tagliargli la gola o le orecchie,
producendo copiose emorragie.
Queste e altre pratiche di
tortura, di cui era giunta notizia alla
gente dalle carceri, era la
dimostrazione di quanto sadismo e
brutale malvagità fosse presente fra le
schiere delle Camicie Nere per i quali
torturare le persone costituiva un atto
di gaiezza infinita.
Rosetta era disposta a
tutto, anche a morire, se ciò fosse
servito a ridare la libertà a Veraldo.
I rappresentanti del Comitato di
Liberazione Nazionale (C.L.N) con cui
era entrata in contatto attraverso
compagni fidati l'avevano rassicurata.
Avrebbero fatto di tutto per liberare
lui e gli altri partigiani catturati
durante il rastrellamento. Lo avrebbero
fatto proponendo ai fascisti uno scambio
di prigionieri, cosa che in passato era
già accaduta con successo.
Un colonnello e un
sottufficiale dell'esercito tedesco,
catturati da una banda di partigiani
della 47.a brigata Garibaldi qualche
giorno prima del rastrellamento sulle
montagne di Corniglio, allorché era
stato attaccato un posto di blocco
tedesco sulla strada per Citerna, era
quanto di meglio il Comitato di
Liberazione Nazionale potesse offrire
nello scambio di prigionieri.
Al momento della trattativa
con i fascisti i rappresentanti del
C.L.N. erano riusciti a spuntare la
liberazione di una decina di detenuti
politici, ma nessuno dei partigiani
catturati durante l'operazione di
rastrellamento sulle montagne di
Corniglio era stato liberato.
Delusa dal mancato scambio
di prigionieri, ma soprattutto dalle
notizie che giungevano per vie traverse
sulle condizioni dei partigiani detenuti
nel carcere di San Francesco, Rosetta
decise di fare di testa propria. Avrebbe
preso lei stessa contatto con Alfio
Bertonelli.
L'ufficiale della Brigata
Nera di Parma era uno dei pochi gerarchi
fascisti che conosceva di persona. Tempo
addietro, prima di unirsi in matrimonio
con Veraldo, l'aveva a lungo corteggiata
e in più di una occasione invitata a
diventare la sua donna. Lei si era
sempre rifiutata, non perché fosse
brutto e goffo, anzi era davvero un
bell'uomo, aitante e gagliardo, ma
indossava la camicia nera e questo le
era bastato per rigettarne le avance.
Alfio Bertonelli era stato
fra i primi camerati, appartenenti alla
federazione fascista di Parma, a aderire
al partito armato che, per decreto di
Mussolini, nel giugno del 1944, aveva
preso il nome di Brigata Nera. A lui
andava il merito di molte azioni di
polizia, condotte dalla compagnia di
brigata di cui era al comando, che
avevano condotto all'uccisione e alla
cattura di numerosi ribelli e di chi li
fiancheggiava.
Rosetta si guardò bene
dall'informare i compagni di lotta
dell'intenzione di mettersi in contatto
con il gerarca fascista. Se qualcuno dei
partigiani ne fosse venuto a conoscenza
avrebbero fatto di tutto per dissuaderla
da quella azione nel timore d'essere
arrestata e sottoposta a torture, con il
rischio di rivelare il nome di qualche
antifascista.
Erano da poco passate le
cinque del pomeriggio quando Rosetta uscì
di casa. Lasciatasi alle spalle i borghi
dell'Oltretorrente raggiunse Piazza
della Rocchetta e prese la direzione di
Piazza Garibaldi. Poco dopo si ritrovò
davanti al Gran Caffè Ducale.
Le poltroncine di vimini,
disposte a cerchio attorno ai tavoli che
occupavano lo spiazzo davanti alla
caffetteria, a poca distanza dal
monumento all'Eroe dei Due Mondi, erano
occupate esclusivamente da uomini. I
pochi avventori conversavano fra loro
mentre assaporavano l'aperitivo oppure
ingollavano dell'estratto di caffè
discutendo di politica e di guerra. Ma
fra loro c'era chi si distraeva a
osservare con un po' di curiosità il
viavai di persone che a quell'ora del
pomeriggio andava a passeggio nella
piazza.
Rosetta andò a occupare
una delle poltroncine di vimini rimaste
libere.
Sistemò la borsetta sul piano del
tavolo, dopodiché rimase in attesa che
il cameriere le si avvicinasse per fare
l'ordinazione.
Non era abituata a
frequentare quel tipo di locali, a detta
di tutti esclusivi della borghesia. A
lei e Veraldo, prima che il marito si
desse alla clandestinità, piaceva
andare a ballare, specie nei mesi estivi
quando le balere mobili, assai diffuse
in città e nelle frazioni, venivano
montate nelle piazze in occasione di
feste, con le piste da ballo formate da
pannelli di legno che si incastravano
uno nell'altro.
Rosetta incominciò a
guardarsi attorno covando la speranza di
incrociare lo sguardo di Alfio
Bertonelli. Dei tanti fascisti in
camicia nera che occupavano i tavoli non
le riuscì di scorgere il volto
dell'uomo per cui era andata lì. Delusa
rimase seduta al tavolo consumando più
di un estratto di caffè, dopodiché
all'ora di cena se ne andò via. Lo
stesso fece il pomeriggio seguente. Il
terzo giorno, mentre stava per prendere
posto su una delle poltrone di vimini
della caffetteria, finalmente incrociò
lo sguardo di Alfio Bertonelli.
L'uomo era in compagnia di
un paio di camerati con cui discorreva
animatamente. Quando la vide interruppe
la conversazione e le rivolse un cenno
di saluto. Rosetta contraccambiò il
gesto di cortesia elargendogli un
voluttuoso sorriso. Al cameriere che le
si fece incontro ordinò un estratto di
caffè, dopodiché volse uno sguardo
accattivante verso l'uomo per cui era
andata lì, certa che prima o poi le si
sarebbe avvicinato, cosa che accadde
puntualmente dopo poco.
- Posso sedermi al tuo
tavolo? - disse l'ufficiale fascista
quando si trovò in piedi davanti a
Rosetta. Lei lo guardò ossequiosa
faticando non poco a reprimere la rabbia
che le rodeva in corpo e gli sorrise.
Alfio Bertonelli indossava
la divisa da ufficiale delle Camicie
Nere. Un cinturone marrone scuro su cui
era fissata una bandoliera di pelle,
portata tracolla da una spalla al fianco
opposto, sorreggeva la fondina di una
pistola Beretta 7.65 con caricatore
inserito. Sull'altro fianco, in bella
vista, mostrava un pugnale d'assalto.
L'uomo non indossava la giacca ma un
maglione nero a girocollo, con l'emblema
di un'aquila e un teschio sul petto;
dalla parte del cuore. Un paio di
pantaloni grigi alla zuava completavano
l'abbigliamento insieme agli stivali di
pelle nera, lucidi come i capelli tirati
all'indietro, spalmati di brillantina,
che riflettevano la luce del sole.
- Sì, certo, accomodati
pure. Magari non ci crederai, ma se oggi
sono venuta qua è solo per vedere te. -
disse Rosetta all'ufficiale fascista.
- Ma va? Non posso
crederci. - rispose l'uomo sorpreso da
quella rivelazione.
- Eppure è così, te lo
assicuro.
- Posso sapere qual è
la ragione di questo tuo interessamento.
- disse dopo avere preso posto sulla
sedia di vimini di fronte a lei.
- Non lo immagini?
- Dovrei?
- In passato ho respinto le
tue avance soltanto perché ero
innamorata di un altro uomo e non c'era
spazio nel mio cuore per te. Se oggi
sono qui è perché voglio qualcosa da
te, ma in cambio sono disposta a darti
tutto ciò che desideri.
Rosetta pronunciò l'ultima
parte del breve discorso in modo che
all'uomo fosse ben chiaro a cosa
alludeva.
- Se posso agevolarti, per
quel poco che mi consente il mio ruolo
di fascista, lo faccio volentieri.
- Ed io saprei come
ricompensarti. - disse Rosetta scaccavallando le cosce e abbassando gli
occhi verso l'inguine.
- Beh, allora? Dimmi cosa
vuoi.
- Notizie su un uomo che
tenete prigioniero in una delle celle di
San Francesco.
- E chi sarebbe costui?
Rosetta esitò prima di
pronunciare il nome di Veraldo non
sapendo in che modo presentarlo, poi
glielo spiattellò.
- E' Veraldo Bianchini.
- E cosa rappresenta per te?
- E' mio marito.
- Ah!
- Ci siamo sposati poco
prima che iniziasse la guerra. Non lo
sapevi?
- No. Avete figli?
- No.
- E qual è il motivo della
sua detenzione?
- E' stato catturato dalle
milizie tedesche durante un
rastrellamento in montagna e portato a
Parma per essere processato, presumo.
- Ah, e io cosa dovrei
fare?
- Niente, ma vorrei avere
sue notizie. Sapere se è ancora vivo.
- E perché non dovrebbe
esserlo. Mica siamo degli assassini noi
fascisti!
- Sì, lo so. - mentì
Rosetta consapevole che non avrebbe
potuto rivelargli ciò di cui la gente
dell'Oltretorrente era informata in
merito all'efferatezza dei metodi di
tortura messi in atto dalla polizia
segreta. - Quello che mi preoccupa è la
Gestapo, potrebbero indurlo a confessare
atti di ribellione che non ha mai
compiuto. Lui è un debole.
L'unica arma che gli
antifascisti avevano a disposizione
quando incappavano nella polizia segreta
era il silenzio. Rosetta era consapevole
di questo, infatti, soltanto il silenzio
avrebbe potuto salvare la vita al suo
uomo. Tradire i compagni significava
ammettere anche le proprie colpe e di
conseguenza le attività clandestine di
cui i partigiani catturati erano
imputati. Resistere alle torture,
perseguendo un ostinato silenzio,
avrebbe impedito ai fascisti d'entrare
in possesso dei nomi degli altri
ribelli. E poi anche in caso di
delazione tedeschi e fascisti avrebbero
fatto comunque tutto ciò che
desideravano sulla pelle dei detenuti e
questo Rosetta lo sapeva bene.
- Proverò a informarmi
sulle attuali condizioni di tuo marito,
poi te le riferirò. Ma sono soltanto
notizie sulla sua salute che vuoi?
- Io, be'...
- Dimmi pure, non farti
scrupolo.
- Sarei disposta a tutto,
proprio a tutto, per vederlo uscire vivo
da quella prigione.
Rosetta pronunciò le
parole tutte d'un fiato guardando Alfio
Bertonelli dritto negli occhi senza
mostrare nessuna incertezza.
- Lo immaginavo, e questo
mi fa piacere. - disse l'uomo che le
stava di fronte. Subito dopo accostò la
mano sopra quella di Rosetta che
stringeva l'impugnatura della tazza di
caffè. - Domani ti saprò dire qualcosa
di più preciso.
- Se per te va bene
possiamo darci appuntamento in questa
caffetteria alla medesima ora. - disse
Rosetta senza sottrarre la mano dalla
tazza che l'uomo seguitava ad
accarezzarle disinteressandosi degli
sguardi della gente seduta ai tavoli
intorno a loro due.
- Va bene, restiamo
d'accordo così. - concluse Rosetta.
Il giorno seguente Rosetta
si presentò all'appuntamento con una
decina di minuto di ritardo sull'ora
fissata. Alfio Bertonelli era ad
attenderla sulla medesima poltrona di
vimini che aveva occupato il giorno
precedente. Stavolta era vestito in
abiti borghesi, con giacca grigia in
doppio petto e camicia nera. Quando la
vide si alzò in piedi e la fece
accomodare di fronte a lui, dopodiché
chiamò il cameriere e si fece servire
un paio di tazze di caffè d'orzo.
- Beh, allora? Come sta mio
marito? - chiese trafelata per
l'emozione.
- Uhm... bene, bene, gode
di ottima salute, per adesso.
- Perché dici così.
- Perché le accuse a suo
carico sono gravi, molto gravi. Rischia
la fucilazione.
- Dopo un sommario processo
naturalmente.
- I processi non sono mai
sommari, ma quando riguardano casi di
tradimento, come nel caso di cui è
imputato tuo marito, allora sono brevi
perché il più delle volte le prove a
carico dei traditori sono schiaccianti.
Quando è stato catturato impugnava un
fucile Mab 38° sottratto qualche mese
fa in una caserma della milizia fascista
di Fornovo. Lo sapevi questo?
- Allora non puoi fare
niente per lui? Nemmeno modificare
l'accusa, fingendo che abbia collaborato
in modo da evitargli la fucilazione?
- Forse sì.
- E io te ne sarei per
sempre grata, lo sai.
- In che modo lo sarai con
me?
- Posso dimostrartelo anche
subito se vuoi. - disse sbattendo più
volte le ciglia dei occhi.
- Purtroppo fra mezz'ora
devo presenziare a una riunione con
altri camerati nel palazzo del Podestà,
adunanza a cui non posso mancare,
potremmo vederci domani sera a casa mia
se ti va.
- Sì, certo.
L'abitazione di Alfio
Bertonelli era situata al primo piano di
Palazzo Vecchio, poco distante dalla
residenza del Podestà. Rosetta la
raggiunse servendosi del tram, sfidando
una fitta pioggia che dal primo
pomeriggio cadeva sulla città. Uscendo
da casa si premurò di mettere nella
borsetta una pistola a tamburo da sei
colpi, molto facile da usare a
differenza delle rivoltelle che spesso
si inceppavano.
Alle nove precise picchiò
il battente del portone di Palazzo
Vecchio, sul Corso Vittorio Emanuele,
dopodiché, rimase in attesa che
qualcuno si decidesse a venirle ad
aprire.
Non le importava granché
di tradire Veraldo con uno degli uomini
più odiati della città. Una volta
lavata, la vagina sarebbe tornata quella
di prima, ma quello che le stava a cuore
era salvare la vita al suo uomo e
avrebbe fatto di tutto per riuscirci.
Ad aprire il portone si
presentò Alfio Bertonelli in persona.
Questo la stupì perché si aspettava
che venisse un fascista della milizia a
riceverla. L'uomo indossava una
vestaglia da camera di seta damascata
che gli nascondeva il petto nudo e gli
conferiva un aspetto da amante
appassionato. Si premurò di farla
accomodare nel corridoio per raggiungere
il cortile da cui dipartiva una doppia
scala che conduceva ai piani superiori
dell'edificio. Fatti pochi passi, ancora
prima di raggiungere il cortile, le fu
addosso.
Rosetta si trovò con la
schiena spiaccicata contro una delle
pareti e il Bertonelli che la stringeva
forte a sé. Il gerarca incominciò a
baciarla sul collo, tastarle il petto, e
morderle la pelle dietro la nuca
addentandola ripetutamente.
Si meravigliò della foga
che l'uomo metteva nel toccarla perché
non era abituata a essere trattata in
quel modo brutale. Un paio di mani le
cinsero le natiche e la abbrancarono da
dietro. Le ginocchia dell'uomo le si
insinuarono una dopo l’altra fra le
cosce costringendola ad allargare le
gambe. Avvertì la consistenza del cazzo
che le premeva contro l'addome e ne
rimase turbata. Da troppo tempo non ne
godeva la pressione sulla pelle.
Non si ribellò al
movimento delle labbra che insieme alla
lingua si misero a esplorarle il viso
aspergendo la pelle di saliva. Il
Bertonelli pareva non decidersi a
raggiungerle la bocca per penetrarla con
la lingua. Era andata lì con l'unico
scopo di sedurlo e ottenere la
liberazione di Veraldo, anche se la cosa
pareva impossibile, ma non aveva messo
in conto che si sarebbe eccitata nel
subire quel tipo di attenzioni.
Il gerarca le inserì il
palmo della mano sotto il tessuto della
camicetta e incominciò a palparle i
seni. Rosetta si ritrovò con i
capezzoli turgidi e si vergognò di
questo. L'eccitazione che le stava
suscitando quell'uomo dai modi bruschi e
violenti, che tanto la disgustava mentre
la stringeva a sé, toccandola e
riempiendola di baci sulla pelle, non le
riuscì di nascondere. Fece di tutto per
rimanere inerme, evitando di farsi
coinvolgere dalle carezze di chi le
stava appiccicato addosso, fintanto che
il gerarca la obbligò ad abbassare la
testa e la spinse a inginocchiarsi
davanti a lui. Estrasse il cazzo,
liberandolo dalla vestaglia, e lo
avvicinò alla bocca di Rosetta che si
stupì nel costatare come era
superdotato l’uomo.
La pioggia cadeva rumorosa
qualche passo più in là, nel cavedio
del cortile, e copriva i gemiti di
piacere che a Rosetta uscivano dalle
labbra mentre succhiava la cappella. Per
fare venire il gerarca in breve tempo si
aiutò col movimento della mano che si
premurò di stringere tutt'attorno alla
radice del cazzo. I fiotti di sperma le
riempirono la bocca quando l'uomo eiaculò.
Deglutì in fretta il liquido seminale
ripulendo la cappella da ogni traccia
con la lingua, badando a soddisfare gli
ordini che lui le propinava.
- Adesso vieni con me. -
disse il gerarca dopo averla presa per
mano.
Insieme attraversarono il
cortile e raggiunsero la scalinata che
conduceva ai piani superiori. Al primo
piano misero piede in una delle due
abitazioni che si affacciavano sul
pianerottolo. Superata la porta
d’ingresso le chiese di spogliarsi di
tutto ciò che aveva addosso. Lei
acconsentì senza battere ciglio
mostrandogli il corpo nudo come aveva
fatto soltanto con Veraldo, dopodiché
lo seguì nella stanza da letto dove il
gerarca la condusse.
Quella sera Rosetta venne a conoscenza
che c'erano uomini come il Bertonelli
che traevano un piacere sadico
nell'infliggere dolore fisico o feroci
umiliazioni alle donne con cui facevano
l'amore. Sennonché essere coinvolta in
situazioni anche lesive della sua
integrità fisica, sperimentare
sofferenza, disprezzo, e subire
umiliazioni di ogni tipo cui la
sottopose il gerarca per tutto il tempo
che rimasero in quella camera le diede
piacere.
Facendo sesso
con il gerarca Rosetta scoprì che una
situazione di dolore, soprattutto
fisico, era in grado di provocarle una
forte eccitazione e accentuazione del
piacere. Infatti, si trovò a
raggiungere più di un orgasmo e un
completo abbandono del corpo e della
mente, sensazioni che non aveva mai
provato facendo l'amore con Veraldo, e
questo la lasciò disorientata.
Rossetta non sapeva cosa
fosse il sadomasochismo, nemmeno aveva
mai sentito quella parola. Lo scoprì
quella sera, mettendosi a disposizione
di quell'uomo, rifiutando ogni
limitazione impostale dalla morale
comune, accrescendo il proprio piacere,
ma soprattutto capì che nel fare sesso
non bisognava porsi alcun limite. Le
sensazioni d'euforia, conseguenza del
dolore che le aveva imposto il
Bertonelli con le sevizie cui l'aveva
sottoposta, si erano espresse in un
piacere che avrebbe desiderato
assaporare in futuro con Veraldo.
Verso mezzanotte la pioggia
diminuì d'intensità. Rosetta scese dal
letto, indolenzita, con la pelle
tumefatta in più di una parte del
corpo. Con un po’ di difficoltà prese
a vestirsi decisa a fare ritorno a casa.
Durante la serata lei e il gerarca non
avevano mai parlato di Veraldo. Quando
si trovò sulla soglia della porta,
pronta a lasciare l'abitazione, si
rivolse al gerarca e gli fece la domanda
che avrebbe voluto rivolgergli da quando
aveva messo piede nell'appartamento.
- Non mi hai dato nessuna
notizia di Veraldo. Ieri mi avevi
promesso che te ne saresti occupato, non
è così?
L'uomo la guardò con
disprezzo, dall'alto al basso,
intenzionato a infliggerle un nuovo
dolore, dopodiché le snocciolò la
verità.
- E' stato fucilato questa
mattina.
Rosetta rimase impassibile.
Non diede seguito alla provocazione, ma
prima di uscire dall'abitazione tolse
dalla borsetta la pistola a tamburo che
portava con sé e la puntò dritta
contro l'uomo che le stava davanti. In
breve successione sparò quattro colpi
contro l'ufficiale delle Camicie Nere,
dopodiché scappo via.
.
Il 25 aprile 1945, otto
mesi dopo quell'avvenimento, a Fornovo
Taro, distante 20 km. da Parma, oltre
15.000 soldati tedeschi e miliziani
fascisti, in ritirata dalla Lunigiana,
furono intercettati dalle forze
partigiane tra Fornovo e Pontescodogna.
Le truppe tedesche, dopo avere tentato
inutilmente di rompere l'accerchiamento
deposero le armi e firmarono la resa.
A Parma le avanguardie
alleate della 5.a Armata raggiunsero la
periferia della città e si incontrarono
con i partigiani. Unità della Brigata
"Parma Vecchia" presero il
controllo dell'Oltretorrente, fra loro
c'era anche Rosetta.
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