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RIPARTO
DA CAPO
DOPO LE CONTRAZIONI
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
L e
contrazioni dell'utero ebbero inizio
verso l'ora di cena, nel preciso istante
in cui sullo schermo del televisore
comparve l'immagine di Pippo Baudo. Una
sofferenza fisica che mi lasciò
sgomenta per l'intensità degli
spasmi.
Un dolore da
urlo!
Gli spasmi si
riproposero a distanza di ogni mezz'ora,
poi ogni quarto d'ora, trascinandosi per
qualche minuto.
Dopo mesi di attesa
il momento del parto stava finalmente
per arrivare a compimento.
Contrariamente a quanto avevo immaginato
fui assalita dall'ansia, ma soprattutto
dalla paura di non essere in grado di
sopportare il dolore del travaglio e
ancora di più quello del parto.
In quei momenti
pensai che una volta ricoverata in
ospedale mi sarei lasciata andare a
lamenti e urla, e avrei perso il
controllo di me stessa. Allora cercai di
rilassarmi come mi ero ripromessa di
fare durante i lunghi mesi di
gravidanza, ma l'inquietudine che avevo
addosso era troppo forte per riuscire a
contenerla.
A mezzanotte, mamma e
papà, spaventati dalla quantità di
liquidi che mi colavano dall'utero, mi
accompagnarono al Pronto Soccorso dell’ospedale.
Lo fecero di fretta, obbligandomi a
salire sulla loro station-wagon,
anziché fare arrivare un'ambulanza
attrezzata per i parti d'emergenza come
sarebbe stato più logico e mio
desiderio.
Sul pianerottolo di
casa, in attesa dell'ascensore, dovetti
rammentare a mamma, che se n'era
completamente dimenticata, di portarsi
appresso la cartella clinica dove
conservavo tutti gli esami clinici e
umorali eseguiti durante i nove mesi di
gravidanza. Ma anche il tesserino
sanitario e un documento d'identità.
All'accettazione del
Pronto Soccorso mi presentai con le
contrazioni dell'utero sempre più
ravvicinate, all'incirca una ogni cinque
minuti. L'infermiera che mi accolse in
clinica ostetricia, dove fui trasferita
d'urgenza, si sorprese nel vedermi
accompagnata da una coppia di anziani,
rimbecilliti, che non smettevano un solo
istante di litigare fra loro.
Mica potevo
raccontarle che non avevo né marito né
un compagno su cui fare affidamento
oltre ai miei genitori. A dirla tutta
nemmeno sapevo chi fosse il padre della
creatura che portavo in grembo da nove
mesi. Può sembrare ridicolo, lo so, ma
è la sacrosanta verità. Questo perché
nel periodo in cui ero rimasta incinta
avevo scopato con più di un uomo, anzi,
in una di quelle occasioni lo avevo
fatto persino con più uomini
contemporaneamente. Tre per l'esattezza,
e uno di loro, il più sexy, quello a
cui avevo anche permesso d'incularmi,
era nero di pelle.
Il pensiero della
pelle colore del catrame di quell'uomo
mi perseguitò durante tutto il periodo
della gravidanza, al pari della
possibilità che la creatura che portavo
in grembo fosse dello stesso colore. Ai
miei genitori non confessai questa
possibilità, ma più si avvicinava il
momento del parto più si faceva spazio
nella mia mente la paura che mio figlio
potesse avere la pelle nera.
Avrei potuto
togliermi il dubbio a tempo debito,
interrompendo la gravidanza nei primi
tre mesi, come prevede la legge, dando
seguito al consiglio di una amica
infermiera che mi aveva suggerito di
farlo. Se non presi quella decisione fu
soltanto perché un figlio lo desideravo
più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Quando il ciclo
mestruale aveva tardato ad arrivare non
presi in considerazione l'eventualità
d'essere incinta, ma più semplicemente
pensai che fosse sopravvenuta la
menopausa. Fu la ginecologa a cui mi
rivolsi per effettuare una visita
specialistica che mi comunicò la lieta
notizia. A quarantadue anni la natura mi
aveva concesso l'occasione per diventare
mamma e non me la lasciai sfuggire.
Il ginecologo di
turno in Clinica Ostetrica, dove fui
trasferita dal Pronto Soccorso,
confermò che la gravidanza stava
procedendo nel migliore dei modi,
ciononostante fui sottoposta a una ecografia di
controllo per monitorare le condizioni
del nascituro. La cosa lì per lì mi
mise in apprensione. Ma riflettendoci
sopra considerai che fosse opportuno
verificare che il nascituro fosse posizionato correttamente con la testa
all'ingiù e pronto a uscire.
Indossati i guanti di
lattice il ginecologo valutò
manualmente la dilatazione del collo
dell'utero, dopodiché mi chiese notizie
sulla frequenza delle contrazioni.
- All'inizio erano
dolori sopportabili, poi sono diventati
più intensi e ravvicinati. Adesso si
ripetono a distanza di 2-4 minuti e
durano 40-60 secondi. - gli risposi
confusa.
- Aspettiamo che la
dilatazione sia completa e raggiunga i
dieci centimetri e il collo dell'utero
sia tutto appianato, dopodiché la farò
accompagnare in sala parto per la fase
espulsiva che sarà molto più breve
rispetto al travaglio. Non si preoccupi.
Le parole del
ginecologo mi rassicurarono, soprattutto
perché ebbi l'impressione che fosse
soddisfatto del modo in cui procedeva
l'avvicinamento al parto.
L'ostetrica e due
infermiere si presero cura della mia
persona e mi condussero in barella nella
sala travaglio. Presi posto su uno dei
tre letti della stanza, uno dei quali
era già occupato da un'altra
partoriente.
- È il primo figlio?
- mi chiese, fra un lamento e l'altro,
quando le due infermiere ci lasciarono
sole.
- Sì, e lei?
- Questo è il terzo
figlio. Non abbia paura, l'importante è
rimanere rilassate.
- Il suo bambino è
maschio o femmina?
- Non l'ho voluto
sapere. Prima di questo figlio ho già
partorito due femmine, ma non mi
dispiacerebbe se la creatura che sta per
nascere fosse una femmina. L'importante
è che sia sana, questo solo conta.
- Il mio è un
maschio. - dissi soddisfatta.
Ascoltando le parole
della mia compagna di stanza mi
convertii alla sua filosofia, anche se
pregai Gesù Cristo perché la creatura
che portavo in grembo fosse di pelle
bianca e non colore della cioccolata.
Rimasi in sala
travaglio per un paio di ore, distesa
sul letto, cambiando spesso di posizione
per alleviare le sofferenze provocate
dalle contrazioni diventate sempre più
frequenti col passare del tempo.
Ero al corrente che
al momento del parto avrei provato
dolore, per questa ragione, nelle
settimane precedenti il ricovero in
ostetricia, mi ero premurata di chiedere
informazioni nel caso fosse mia
intenzione effettuare l'analgesia
epidurale continua, un tipo di anestesia
che consente alle donne gravide di
controllare il dolore durante il parto.
Ma quando mi ero sentita chiedere la
cifra di 980 euro per la sola
prestazione anestesiologica ci avevo
rinunciato, convinta che avrei potuto
vivere il momento del parto con gioia e
serenità senza l'effetto
dell'anestesia, come già avevano fatto
mia madre e mia nonna prima di me.
L'ostetrica seguitò
a tenermi sotto controllo mentre ero in
sala travaglio, misurandomi la pressione
arteriosa ed effettuando più di una
esplorazione vaginale per accertarsi che
il collo dell'utero si dilatasse sempre
più. La sua pazienza e la sua dolcezza
mi furono d'aiuto, soprattutto per
contenere l'ansia che mi portavo addosso
mentre si prodigava a darmi consigli
utili per alleviare il dolore,
suggerendomi le posizioni che avrei
dovuto assumere per aiutare il bambino a
nascere.
La partoriente che
occupava il letto accanto al mio mi
precedette in sala parto, inseguita
dappresso dal marito. Mi ritrovai sola
in sala travaglio, con nessuno intorno,
anche per mia scelta, infatti, mi
sarebbe stato difficile avere vicino mia
madre e fingere di essere di buon umore,
specie quando mi giunsero alle orecchie
le urla della donna che mi aveva
preceduta in sala parto. Nell'ascoltare
quelle grida ebbi la sensazione che la
sala parto fosse una stanza delle
torture, ma sbagliai.
Stavo pensando a
questa remota possibilità quando
l'ostetrica, che nel frattempo era
tornata a farmi visita, si accorse che
la dilatazione era completa e il collo
dell'utero del tutto appianato, ma
ahimè le contrazioni veloci non
volevano saperne di iniziare.
Ascoltato il parere
del ginecologo si preoccupò di
somministrarmi una flebo con dell'ossitocina,
un farmaco che aiuta ad accelerare le
contrazioni, dopodiché ruppe
artificialmente il sacco amniotico per
rendere più rapido il parto.
Fui accompagnata in
tutta fretta in una delle sale parto per
la fase espulsiva che si rivelò molto
breve. La rottura del sacco amniotico,
con la conseguente perdita delle acque,
mi stimolò delle contrazioni all'utero
che col passare dei minuti si fecero
più acute. Le infermiere mi fecero
accomodare sul lettino ginecologico,
provvisto di maniglie, a cui mi sarei
dovuta aggrappare per facilitare le
spinte ed espellere il feto, dopodiché
si diedero cura di sistemarmi le
ginocchia sopra gli alzagambe in modo da
mantenere divaricate cosce e gambe.
Tutt'a un tratto mi
trovai circondata da uomini e donne
protetti da camici verdi e i volti
celati da mascherine. Il fascio di luce
di una lampada scialitica mi illuminò
fra le cosce esponendo la passera alla
vista di tutti i presenti nella sala. La
cosa non mi creò granché disturbo
perché in quel frangente tutti erano
impegnati nell'incoraggiarmi a spingere
urlandomi addosso le medesime parole:
- Spingi! Spingi!
Dai, forza!
Io, invece, dopo un
po' che spingevo non ce la facevo più.
Ero sudata fradicia e prossima a
svenire.
- Dai... dai, che ci
siamo, ormai si vede la testa del
nascituro, ci siamo... ci siamo!
A quelle parole
avvertii un bisogno incontenibile di
spingere il culo in avanti mentre la
vagina si dilatava sempre più, ultimo
ostacolo alla nascita di mio figlio.
- E' uscita la
testa!" - urlò qualcuno.
Spinsi con tutta
forza e la rabbia che avevo in corpo
urlando per il dolore. Seguitai a farlo
fintanto che mio figlio nacque e per me
fu una liberazione.
- Liberagli la
spalla. Così, brava! - si affrettò a
suggerire una voce femminile a una
collega. - Adesso l'altra.
Qualcuno, non so chi,
mi appoggiò sul petto mio figlio,
sporco di sangue e di muco bianco, per
un primo contatto. Lo sentii che urlava
come se avesse fame. L'unica cosa che mi
riuscì di fare fu di mettermi a
piangere per la gioia perché la sua
pelle non era nera, ma bianca come la
mia. E poi era enorme (pesava 3.9 chili
come mi fu detto in seguito). Dopo avere
verificato il colore della pelle le
prime parole che mi uscirono dalle
labbra furono:
- Sta bene? Sta bene?
E' andato tutto okay?
- Sì... sì ... -
disse qualcuno. - E' un bellissimo
maschietto.
Nell'udire quelle
parole smarrii tutto il senso
d'inadeguatezza che avevo accumulato
prima della nascita di mio figlio. Per
la prima volta nella mia vita mi sentii
investita da una grossa responsabilità
e ne fui felice.
La paura che mio
figlio potesse avere subito dei traumi
durante il parto seguitò a fare eco
nella mia mente mandandomi a pezzi più
di un neurone, che già ne ho pochi
rimasti sani come dice sempre mia madre.
Il momento più difficile del dopo parto
giunse quando l'ostetrica, dopo avere
annodato il cordone ombelicale e
provveduto a reciderlo, portò via mio
figlio per lavarlo. Subito dopo il
ginecologo si occupò di suturare
l'incisione che si era premurato di
fare, preventivamente, alla vagina per
facilitare il passaggio di mio figlio.
Doveva essere parecchio lacerata perché
accusai un parecchio dolore mentre
provvedeva a eseguire i punti di
sutura
Infermiere e
ostetrica mi lasciarono seduta sul
lettino della sala parto fino
all'espulsione della placenta. Il
distacco avvenne in maniera naturale,
con l'utero che cominciò a contrarsi
per fare ritorno alle sue dimensioni
naturali, quelle prima della nascita di
mio figlio. La placenta si staccò dalla
parte uterina e la espulsi assistita
dall'ostetrica che mi rimase accanto
durante la durata del parto, dopodiché
mi accompagnò nella camera di degenza.
Nelle ore successive
non mi riuscì di urinare. Pensavo fosse
colpa mia e dello stress, invece
l'infermiera mi rassicurò dicendomi che
era un evento normale, che non dovevo
preoccuparmi. Fui in grado di fare la
pipì soltanto a mezzogiorno, otto ore
dopo avere partorito.
Trascorsi il
pomeriggio con il seno teso e dolente
per l'avvicinarsi della montata di
latte. Una delle infermiere mi consegnò
mio figlio invitandomi ad attaccarlo al
seno per allattarlo. Lui cominciò a
poppare, ma inutilmente perché non
avevo ancora latte. Soltanto verso sera
fui in grado di nutrirlo svuotando il
seno.
Quarantotto dopo il
parto la pancia si sgonfiò di brutto. Non stavo bene e avevo
difficoltà a stare sdraiata sul letto.
Provai anche a mettermi seduta, ma ogni
postura si rivelò poco efficace. Non
sapevo dove stare. La verità fu che non
ero per niente preparata a quello che mi
stava accadendo, certe cose non le
scrivono sui i libri dedicati al parto.
Mio figlio strillava
e faceva un rumore che tanto
assomigliava alle sirene di una
ambulanza.
- E' un vezzo che ha
preso da te. - disse mia madre.
Nei giorni seguenti
mio figlio mostrò d'avere sempre fame
insistendo ad aggrapparsi al capezzolo
per la pappa. In poche parole mi
trasformai in una latteria ambulante.
La natura è
decisamente complicata. Ero convinta che
allattare fosse una cosa semplice,
invece si dimostrò un gran casino.
Imparai a essere mamma e seguitai a
dargli il mio latte a lungo, poi
alimentai mio figlio con un allattamento
misto, ma senza fare troppi programmi
stando a vedere cosa la vita mi avrebbe
riservato a lui e a me.
Ah, dimenticavo di
dire che il nome che ho dato a mio
figlio è...
Benvenuto!
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