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NESSUNO
MI PUO' GUARIRE
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
Come
posso raccontare l'indicibile? Ho
vergogna a parlarne perché la storia di
cui sono stata protagonista in prima
persona non ha nulla di umano. E' così
esagerata e crudele che potrebbe
sembrare inattendibile. Troppo l'orrore,
troppa la violenza, troppa la sofferenza
che ho patito per colpa degli uomini.
Per una anno intero sono
stata segregata nella cantina di un
casolare di campagna, trattata peggio di
una schiava da un gruppo di rumeni che
hanno fatto di me ciò che volevano.
Ogni mattina mi svegliavo con la
certezza che sarei tornata a vivere
un'altra giornata d'inferno. Ho urlato,
pianto, supplicato, ho cercato aiuto, ma
le mie grida sono rimaste inascoltate,
perse nel vuoto di quattro umide mura.
Per dodici mesi sono stata
costretta alle più umilianti delle
violenze, brutalizzata e sodomizzata da
uomini che non avevano niente di umano,
mentre le loro donne, complici in un
reiterato silenzio, pur non partecipando
attivamente alle violenze di cui sono
stata fatta oggetto, vedevano e tacevano
senza mai ribellarsi.
All'inizio ho sperato nel
loro aiuto, sbagliando, mentre tutto
quello che ho ricevuto dalle loro mani
è stato soltanto un po' di cibo e
dell'acqua, nutrimento che mi ha
permesso di sopravvivere per tutto il
tempo in cui sono rimasta prigioniera.
La mia storia potrebbe
concludersi qua, ma a distanza di tre
anni dal compimento di questa triste
vicenda, di cui sono rimasta vittima, ho
finalmente trovato la forza di raccontarla per intero, a cominciare
dalla sera in cui ha avuto inizio.
Sento il bisogno di
ripulirmi per tornare a essere quella
che ero prima di essere violentata, ma
per raggiungere questo obiettivo devo
raccontarmi perché solo in questo modo
potrò uscire dallo stato comatoso in
cui sono precipitata.
L'orrore che mi porto
dentro di quei giorni di prigionia,
vissuti in
un incredibile labirinto di folli
perversioni, occupa stabilmente la mia
mente. Provo un senso di vergogna, sono
angosciata, e seguito a rimproverare me
stessa per quanto è accaduto, invece
non dovrei farlo, lo so bene, ma non ci
riesco.
Lo psicologo che mi ha in
cura, cui sono stata affidata dai
servizi sociali della USL, sostiene che
il senso di colpa di cui soffro rientra
nella normalità di una donna che ha subito una aggressione sessuale.
Mi esorta continuamente a parlare
dell'accaduto, vuole che ricordi anche i
minimi particolari, persino quelli che a
me appaiono meno importanti, perché a
suo dire parlarne mi restituirà la
salute mentale, mentre se seguito a tenere tutto
dentro non potrò che peggiorare il mio
stato.
Sono trascorsi quattro anni
dalla notte in cui la banda di rumeni mi
ha fatto prigioniera. Quel sabato sera
stavo facendo ritorno a casa, dopo avere
trascorso la serata in discoteca, quando
il motore della Mini Cooper di cui ero
alla guida si spense d'improvviso mentre
percorrevo la Via Emilia.
Oramai ero prossima a
Parma, mancavano soltanto una decina di
chilometri al cartello stradale che
indicava la città. Feci appena in tempo
ad accostare la vettura al ciglio della
strada prima che la Mini Cooper, con un
borbottio, sospendesse definitivamente
la corsa.
Dopo alcuni inutili
tentativi di fare ripartire il motorino
d'avviamento mi arresi. Alla sfiga
d'essere rimasta in panne si aggiunse
anche quella di non essere in grado di
effettuare una qualsiasi telefonata.
Infatti, il cellulare che custodivo
nella borsetta aveva le pile scariche.
Bloccata e impossibilitata
a fare ripartire l'automezzo decisi di
percorrere a piedi la distanza che mi
separava dalla città. Nemmeno per un
solo istante presi in considerazione
l'eventualità di effettuare l'autostop.
Troppo pericoloso, pensai.
Quella sera indossavo un
vestito abbastanza scollacciato, lungo a
mezza coscia, che durante il cammino
verso la città non mancò di attirare
sulla mia persona l'attenzione di un
nutrito numero di automobilisti che a
quell'ora percorrevano la Via Emilia.
Impedita a muovermi
agevolmente per colpa dei tacchi da 12
centimetri che calzavo ai piedi, mi
liberai delle scarpe e proseguii a piedi
scalzi sulla striscia d'erba, a lato
della strada, dove trovavano posto i
paracarri.
Fatta segno di frasi
ingiuriose, pronunciate dagli
automobilisti di passaggio, scambiata
per una prostituta impegnata ad adescare
clienti, stanca e impaurita, accettai un
passaggio da un ragazzo dal viso
angelico che si fermò con la sua
Citroen station-wagon chiedendomi, unico
fra tutti, se avevo bisogno d'aiuto.
Mica potevo immaginare che sarebbe stato
uno dei miei carnefici. Tuttora,
ripensando a quei giorni di prigionia,
faccio fatica a pensare a lui come a uno
dei mostri che mi hanno violentata
ripetutamente.
Per un anno intero, la
banda di rumeni, mi ha tenuta
prigioniera in una cantina priva di luce
elettrica, carente di servizi igienici,
impossibilitata persino a lavarmi,
subendo una inesauribile serie di abusi.
I giorni di prigionia,
trascorsi in quella cantina, sono stati
un continuo incubo. Nella solitudine di
quelle quattro mura mi sono interrogata
più volte sul senso della vita. Non
sapevo quali fossero le loro reali
intenzioni, oltre a quella di
violentarmi e godere dei piaceri del mio
corpo. Temevo che prima o poi
mi avrebbero uccisa e seppellita in una
fossa scavata in aperta campagna.
Probabilmente era questa la loro
intenzione se non fossero intervenuti i
carabinieri a liberarmi. Liberazione
avvenuta in modo del tutto casuale perché le forze dell'ordine raggiunsero
il casolare per caso, seguendo una pista
del traffico di droga.
Oltre a essere obbligata a
soddisfare i loro appetiti sessuali fui
costretta a portare a termine, in più
di una occasione, per loro divertimento,
a dei rapporti sessuali con uno dei loro
cani; un dobermann, che probabilmente si
era congiunto con altre donne prima di
me, perché quando si trattò di
infilare il suo coso nella mia vagina
trovò subito la strada fra le cosce,
nonostante mi divincolassi, tenuta ferma
dai miei aguzzini. I rumeni parevano
divertirsi nel vedermi cavalcata da quel
cane, lo stesso animale che durante il
giorno faceva da guardia girando
nell'aia del casolare mentre loro erano
assenti.
Quando il ragazzo si
premurò di farmi salire sulla
station-wagon, dopo avergli fatto sapere
quanto era accaduto alla mia
autovettura, mi propose garbatamente di
aiutarmi, carpendo la mia fiducia.
- Ti accompagno a casa mia,
dista solo un paio di chilometri. Lì
potrai telefonare a un elettrauto del
soccorso stradale. Oppure ti accompagno
a casa tua. - disse il ragazzo
Dopo la serata trascorsa in
discoteca, dove avevo ecceduto nel bere
e assunto un po' di roba, non mi ero
accorta che il ragazzo alla guida della
station-wagon non era italiano,
altrimenti non avrei mai accettato il
passaggio in auto.
Abbandonata la Via Emilia,
raggiungemmo una cascina. Solo allora,
nella oscurità di quel luogo, lontano
dalla strada statale, presi coscienza
dell'errore che avevo fatto e cominciai
a essere preoccupata. Bloccata l'auto
nel cortile della cascina il ragazzo fu
lesto ad abbandonare il posto di guida.
Scese dalla macchina e venne nella mia
direzione. Una volta aperta la portiera
mi trascinò con la forza fuori dalla
vettura e mi spinse verso la cascina.
Tutt'a un tratto da una
porta della casa colonica uscirono fuori
un paio di uomini che ci vennero
incontro. Spaventata cercai di fuggire
rincorsa dappresso dal ragazzo che stava
alle mie spalle. Sollevata di peso dai
tre uomini fui trascinata nel casolare.
Quella notte, fino al
sorgere del nuovo giorno, dovetti subire
ripetute violenze dal gruppo di rumeni
che abusarono a turno del mio corpo in
tutti i modi, lacerandomi le pareti
dell'ano fino a farlo sanguinare con i
loro atti violenti. Dopo lo shock
provocatomi dalle botte ricevute perché
mi ero ribellata all'aggressione
sessuale, cercando d'oppormi in tutti i
modi alle violenze, mi ritrovai in un
profondo stato di confusione.
Intorpidita in ogni parte del corpo a
causa delle ecchimosi, residui delle
botte ricevute, e dalle tracce di sangue
rappreso attorno le mie cavità, ero
disperata.
I primi giorni trascorsi in
quel casolare furono i più terribili da
sopportare. Non sapevo rassegnarmi a
essere ripetutamente violentata dai miei
aguzzini. Rifiutavo il ruolo di schiava,
mentre l'unica cosa a cui pensavo era di
fuggire, anche se non sapevo come sarei
riuscita a farlo.
Col passare delle settimane
diventai insensibile a tutto ciò che mi
accadeva. Sopportai passivamente ogni
tipo di violenza, perché quello che
desideravo non era più di fuggire, ma
soltanto morire.
Il ricordo di quei lunghi
mesi trascorsi da schiava, privata della
libertà, sottoposta ad abusi infami e
vergognosi, mi si ripresentano
quotidianamente nella mente, ma
soprattutto mi tengono compagnia durante
la notte quando mi sveglio nel letto
della mia casa impaurita e sudata.
Oramai sono trascorsi tre
anni da quando ho riacquistato la libertà.
Non sono ancora tornata alla normalità,
mi sento intorpidita, distaccata, come
se la realtà in cui sono costretta
quotidianamente a vivere sia soltanto un
sogno. Percepisco il mondo che mi
circonda in modo del tutto irreale, come
se il mio inconscio riconoscesse come
unica realtà il periodo vissuto dentro
quella cascina. Rivivo continuamente i
momenti di quelle aggressioni. Sono
pensieri ossessivi, ricordi, incubi,
visoni mostruose. Vorrei mettere fine a
quelle brutture, rimuovendo i
particolari di quei giorni e delle
aggressioni subite, invece ho difficoltà
a concentrarmi sulle cose di tutti i
giorni.
Ho un ansia crescente e la
sera fatico a prendere sonno. Sempre più
spesso penso che dovrei farla finita con
questa vita. Ho tanta rabbia in corpo e
non so come fare a sfogarla. Da quando
sono stata liberata ho evitato il
contatto con l'altro sesso. Ho paura di
innamorarmi di un uomo e d'avere con lui
un qualsiasi rapporto sessuale. Ho messo
in atto delle strategie per difendermi
dal dolore, anche se mi stanno
provocando troppo disagio, ma che potrei
fare di diverso?
Ho provato a contenere
l'ansia che mi porto addosso assumendo
psicofarmaci, poi ho assunto dell'alcol,
ma non è servito a niente, anzi, fare
ricorso a queste sostanze ha soltanto
contribuito a fare diminuire quelle
energie positive che dovrebbero servirmi
a contenere le mie paure. Parlare di
quanto mi è accaduto spero che possa
servire a farmi guarire dagli attacchi
di panico che a distanza di tre anni da
quell'accadimento seguitano a colpirmi.
Mi manca solo una cosa. Il tempo per
guarire.
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