GRAN CAFFE' ORIENTALE
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

       Le poltroncine di vimini collocate in triplice fila dinanzi al Gran Caffè Orientale erano tutte occupate dai clienti. Nemmeno una poltroncina era rimasta libera. Gli avventori, per lo più habitué del locale, conversavano fra loro interessati dall'andirivieni di persone che transitavano nella piazza dinanzi alla loro postazione.
   Un sottile strato di nebbia, presagio dell'inverno incombente, ingrigiva il cielo sopra la città. Piazza del Duomo era affollata da comitive di turisti come accadeva ogni sabato mattina. Il Gran Caffè Orientale, congiuntamente agli altri caffè di Piazza Garibaldi, era un crocevia obbligatorio per la massa di turisti che facevano visita alla cattedrale.
   Umberto occupava una delle poltroncine di vimini da più di un'ora. Seduto sulla poltrona sarebbe rimasto lì per il resto della mattinata. Sulla tovaglia a quadretti bianchi e blu, stesa sul tavolo, trovava posto una tazzina di caffè. La bevanda, diluita e scura, era ancora tiepida nonostante fosse trascorso parecchio tempo da quando il cameriere gliel'aveva servita.
   Umberto era abituato ad avvicinare la tazza alle labbra con parsimonia, appagando il piacere di assaporare l'infuso aromatico a piccoli sorsi, come si conviene a chi si considera un estimatore della bevanda scura. 
   Strano modo di gustare l'infuso il suo. Lo aveva appreso tempo addietro, in Marocco, la volta in cui si era trovato a guardare Piazza Jemaa el Fna dall'alto di una terrazza panoramica, nel cuore della Medina di Marrakech. Quel giorno, seduto a un tavolo, confuso fra i turisti che affollavano il belvedere dell'Hotel France, un giovane marocchino era rimasto a lungo a gustare la bevanda avvicinandola in modo discontinuo alle labbra, assaporandone poche stille per volta. Memore di quella circostanza aveva incominciato a bere il caffè in modo diverso da quanto aveva fatto in precedenza, centellinando l'aroma penetrante della bevanda a piccoli sorsi.

   Umberto manteneva il trench sbottonato sul davanti, ostentando una giacca blu, in doppio petto, di pregiata lavorazione sartoriale artigianale, e un paio di pantaloni cenerini dello stesso tipo. Elegante e raffinato, nonostante il mestiere di imbianchino, manteneva le gambe accavallate mettendo in movimento le estremità delle scarpe, di fattura inglese, al ritmo di una musica sudamericana che gli era rimasta impressa nella memoria dalla sera precedente quando aveva messo piede al Samoha, un locale gay ubicato alla periferia della città sulla strada verso Reggio Emilia.
   Nessuno dei clienti seduti ai tavoli del Caffè Orientale aveva l'aria d'essere scandalizzato dal tipo di calzini che Umberto indossava ai piedi. Nemmeno l'anziano cameriere che gli aveva servito la bevanda, testimone delle eccentricità degli avventori che ogni giorno serviva ai tavoli, ci aveva fatto caso.
   Il colore scuro dei collant di lycra, con disegnati dei cubi sulla parte laterale, sporgeva dal margine inferiore dei pantaloni e si congiungeva alle scarpe che Umberto calzava ai piedi. 
   Aveva smesso d'indossare calzini lunghi quando si era accorto che l'elastico, necessario per sorreggerli, rallentava la circolazione sanguigna provocandogli edemi alla parte inferiore delle gambe. I calzini corti, invece, oltre che stringergli la caviglia, erano antiestetici e dozzinali, e avevano il difetto di lasciare scoperta parte della gamba quando era seduto.
   I collant che aveva indosso avevano il pregio di essere forniti di uno spacco sul davanti molto simile a quello della patta dei pantaloni. Un modello difficile da reperire, perlomeno in Italia, ma in vendita nei migliori negozi di lingeria maschile di numerose città europee.

   Il sabato mattina Umberto aveva l'abitudine di mettersi in mostra, davanti a un tavolo del Gran Caffè Orientale, seguendo con lo sguardo gli uomini che transitavano nella piazza. 
   Quel sabato mattina, sotto i collant, un perizoma in pizzo nero gli copriva il pube e gli cingeva i genitali. Un reggiseno gli avvolgeva il petto mimetizzato alla vista della gente dal tessuto della camicia e dalla canottiera.
   Confuso fra gli avventori della caffetteria traeva godimento nel guardare i maschi che transitavano dinanzi alla sua postazione. Gli piaceva rincorrere con gli occhi le curve sporgenti dei loro fondoschiena eccitandosi ai movimenti delle natiche.
   Sorseggiò la bevanda con la speranza che l'aroma estinguesse la sete di sesso che si portava addosso. Il cazzo gli pulsava sotto le mutandine e, duro com'era, gli spuntava fuori dal perizoma che lo conteneva. 
   Tutt'a un tratto fu circondato da un paio di poliziotti in borghese e spinto con forza dentro una pantera della polizia, come si trattasse del peggiore dei delinquenti. Condotto in questura fu accusato di adescamento di minori dall'ufficiale della buoncostume che aveva condotto l'arresto dietro segnalazione di un anonimo delatore.
   Mentre Umberto era in questura una squadra di agenti di polizia misero sottosopra ogni stanza del suo appartamento alla ricerca di indizi che avvalorassero la tesi di pedofilia. Ma l'unico oggetto strano che gli inquirenti scovarono fu una pregiata collezione di indumenti femminili che riempivano un armadio e il comò, niente di più.
   In tarda serata Umberto fu rimesso in libertà. Umiliato dall'arresto, lui che non aveva mai fatto male a una mosca, abbandonò gli uffici della questura e fece ritorno a casa. A mezzanotte, dopo avere guardato in tivù l'anticipo del campionato di calcio fra Inter e Milan s'impiccò. A nessuno fu chiaro il perché di quel gesto.

 

 

 
 

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