L'OSSERVATORE
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

  
      La carovana di autoarticolati è in procinto di abbandonare la cittadella ospedaliera. La missione umanitaria a cui sto prendendo parte prevede l'invio di medicinali e generi di prima necessità destinati alla popolazione croata di Bihac, cittadina della Bosnia-Erzegovina assediata dalle truppe serbe.  
   La comitiva di volontari che partecipa alla missione umanitaria si compone di cinque autisti, tre infermiere e due medici. All'ultimo istante si è aggregato al gruppo di soccorritori un fuoristrada della protezione civile con due Pionieri della Croce Rossa.
   La Direzione Sanitaria dell'ospedale da cui dipendo mi ha concesso un congedo straordinario, remunerato, valido per il tempo necessario a compiere la missione di soccorso umanitario, dopodiché tornerò a praticare il mio lavoro d'infermiera di corsia.
   Delle tre infermiere che prendono parte alla missione Cinzia è la più giovane. Ha solo ventidue anni, ma all'attivo ha già due missioni ufficiali. Rita, l'altra infermiera, è una ragazzona di trent'anni ed è strumentista di sala operatoria. E' un tipo in gamba, orgogliosa dell'esperienza professionale accumulata in tanti anni di lavoro nel trattamento chirurgico delle ferite. In passato ha preso parte a spedizioni umanitarie in Etiopia e Libano. I due medici specializzandi, al quarto anno dell'indirizzo di medicina d'urgenza, partecipano per la prima volta a una missione di soccorso umanitaria.
   Dopo la benedizione agli automezzi, eseguita dal cappellano dell'ospedale, la carovana di autotreni accende i motori. Sono le 8.00 di una grigia mattina autunnale quando gli autoveicoli abbandonano la cinta ospedaliera per intraprendere la missione di soccorso umanitaria. Saranno necessari almeno tre giorni di viaggio per raggiungere la nostra destinazione, dopodiché, consegnato il carico, faremo ritorno in Italia.
   Una lunga corsa in autostrada ci conduce a Ferrara dove proseguiamo per Venezia sino a raggiungere Gorizia. Attraversiamo la frontiera con la Slovenia nelle prime ore del pomeriggio.
   Il territorio sloveno è diverso da quello carsico che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Abbandonando l'Italia mi prende l'angoscia. Rimuovo il senso d'inquietudine che mi coglie considerando i bisogni delle genti che andremo a soccorrere, ma non riesco a togliermi dalla mente che da questa missione potrei anche non fare ritorno.
   Verso sera raggiungiamo la città di Lubiana dove sostiamo per l'intera notte. Transitando per la frontiera croata abbiamo sentore di ciò che troveremo proseguendo nel viaggio. Trascorre un giorno intero prima che le guardie frontaliere ci concedano l’autorizzazione per proseguire verso Bihac. I militari passano a setacciato gli autotreni della carovana alla ricerca di chissà cosa, poi ci lasciano liberi di proseguire nel nostro viaggio umanitario.
   Il panorama lungo le strade che attraversiamo nella Croazia è desolante. Dappertutto incontriamo colonne di soldati e semoventi, specie sulla strada che da Zagabria conduce verso sud, alla frontiera con la Bosnia. Colonne di profughi, ricchi di povere masserizie, sostano sul ciglio delle strade in attesa di un aiuto che non giungerà mai. Vecchi, donne e bambini stanno aggrappati gli uni agli altri, avvolti in panni di lana, per ripararsi dal freddo pungente. Vedo le loro mani venirci incontro per richiamare la nostra attenzione, in cerca di un aiuto che non siamo in grado di offrirgli. Proseguiamo nel viaggio senza fermarci a soccorrerli.
   Incappiamo in numerosi posti di blocco e ogni volta siamo costretti ad arrestare la corsa degli automezzi per dare modo ai soldati d'ispezionare il carico che trasportiamo.
   Più ci avviciniamo alla Bosnia, più i controlli alla carovana si fanno frequenti. La sera del terzo giorno giungiamo a Plitvice, considerata, prima della guerra fratricida, una fra le sette meraviglie del mondo. Della natura incontaminata e delle cascate d'acqua per cui era famosa non è rimasta che una landa desolata. C'intratteniamo a dormire a bordo dei nostri camion perché non ci fidiamo a lasciare incustodito il prezioso carico che trasportiamo.
   Con gli altri compagni di viaggio scambiamo le prime impressioni su ciò che abbiamo visto nei tre giorni di viaggio, ma se alla partenza della missione eravamo inquieti ora siamo preoccupati. Alcuni di noi sono persino incerti se portare a termine la missione. 
   Prima d'intraprendere l'ultima parte del compito affidatoci, quello che ci porterà alla città di Bihac, assediata da truppe serbe, prendiamo contatto con le autorità militari croate e insieme analizziamo la situazione. A loro modo cercano di dissuaderci dal compiere la missione, stante la pericolosità della strada che andremo a percorrere, ma la maggioranza delle persone che compongono la comitiva non vuole assolutamente rinunciare all'incarico che ci è stato assegnato. Io sono fra coloro che a tutti i costi vogliono raggiungere l'iniziale destinazione.
   Quella che ci apprestiamo ad affrontare è la parte più pericolosa del viaggio. Si tratta di percorrere un tratto di strada di una decina di chilometri che s'inerpica sulle montagne ed è presidiata da truppe serbe.
   La carovana di autoarticolati sale lungo i tornanti che conducono al passo Harduc. D'improvviso, a metà strada, un gruppo di miliziani bosniaci esce allo scoperto dal bosco. Minacciandoci con le armi automatiche bloccano gli autoarticolati e ci impediscono di avanzare. Alcuni soldati sparano dei colpi di mitra per aria facendoci capire quali sono le loro intenzioni. Sotto il tiro delle armi veniamo fatti scendere dai camion e obbligati a stenderci sul selciato.
   I miliziani hanno il capo coperto da passamontagna e indossano tute mimetiche. Dopo averci sottoposto a una rapida perquisizione veniamo divisi in due gruppi; gli uomini da una parte e le donne dall'altra.
   Ci ritroviamo a percorrere un sentiero che scavalca la montagna diretti verso una meta a noi sconosciuta. Attraversiamo boschi di abeti secolari e dopo un paio di ore di cammino facciamo capolino in una valle ricca di prati erbosi. In uno spazio verde scopriamo un gruppo di case simili a baite di montagna. Il gruppo di noi donne viene condotto verso l'edificio più piccolo, mentre gli uomini sono rinchiusi in quella che ha tutta l'apparenza di essere una stalla. 
   Nel buio della baita noi donne prendiamo coscienza della gravità della situazione in cui siamo venute a trovarci. Trascorre parecchio tempo prima che uno dei carcerieri venga a farci visita. Strette una all'altra sfruttiamo il calore che emanano i corpi per riscaldarci dal freddo pungente. Non scambiamo una sola parola. Ognuna cela la propria angoscia dentro di sé traendo coraggio dall'abbraccio delle compagne. La situazione è disperata e ciascuna nel proprio intimo ne è consapevole.
   E' sera quando un uomo dal capo coperto da un passamontagna si affaccia sulla porta della baita. Nella mano stringe una lampada a petrolio, nell'altra un tegame con della carne affumicata e un po' di pane. E' da stamani che non mettiamo cibo sotto i denti e, per quanto la situazione sia drammatica, abbiamo fame. Affondiamo le dita nel tegame cibandoci del modesto pasto.
   Un tavolo di legno occupa la parte centrale della baita dove siamo alloggiate. Sul ripiano è rimasta la lampada a petrolio che l'uomo aveva portato con sé. Alcune brande di legno stanno allineate contro la parete opposta all'ingresso del locale. Consumato il pasto restiamo accovacciate sui nostri giacigli in attesa dell'evolversi della situazione.
   Verso le 10.00 veniamo destate dai rumori che provengono dalla baracca poco lontana dalla nostra. Tutt'a un tratto la porta del capanno in cui siamo ospitate si apre. Un gruppo di soldati, forse una decina, irrompono nella stanza. Sono vestiti con tute mimetiche e il viso è coperto da passamontagna. Uno di loro, probabilmente il più alto in grado, fa cenno a uno dei soldati di prendere l'iniziativa. Quest'ultimo si avvicina a Cinzia. L'afferra per un braccio, la trascina per la stanza, e la fa sdraiare sopra una branda. Altri due soldati si dispongono ai lati del giaciglio, afferrarono Cinzia per le braccia e la tengono ferma.
   La baita si riempie delle urla della nostra compagna mentre io e Rita ci stringiamo una all'altra in preda al terrore. L'uomo che per primo ha trascinato Cinzia sulla branda la spoglia dei jeans e le strappa le mutandine. Lei si dimena e urla la propria disperazione con tutta la voce che ha in gola. Il soldato, per niente impietosito, dà maggior vigore alla sua azione. Altri due compagni gli vengono in aiuto e divaricano le cosce della nostra compagna. Il soldato slaccia la cinghia dei pantaloni e cala le brache. Posso vederlo mentre deflora il candido corpo di Cinzia che sapevo essere vergine.
   Le urla della nostra compagna si fanno più acute. Il suo aguzzino sembra trarre piacere dall'inusuale scoperta. Dopo che le ha sborrato nella fica si rialza e fa cenno a un commilitone di prendere il suo posto. Quest'ultimo introduce il cazzo nella fica di Cinzia inviolata fino a qualche istante prima. I soldati fanno partire dei manrovesci sul volto della nostra amica, tramortendola a ogni cenno di reazione, mentre il soldato seguita a scoparla fino a eiaculare dentro di lei. Quando è la volta del capogruppo, fino a quel momento rimasto in disparte, con l'atteggiamento di chi si atteggia a osservatore, un soldato impone a Cinzia di mettersi in ginocchio sul pavimento con l'addome e il mento riversi sulla branda.
   Mentre l'Osservatore segue la scena l'uomo che ha indicato come esecutore abbassa i pantaloni e mette in mostra un cazzo dalle dimensioni ciclopiche. Deposita un grumo di saliva sulle dita e deterge il buco del culo di Cinzia. Successivamente stringe nella mano il cazzo e lo guida verso l'ano fra le risate dei compagni che iniziano ad accompagnare la penetrazione con esclamazioni a ogni spinta.
   L'Osservatore che per tutto il tempo ha seguito con malcelato interesse la scena apre la patta della tuta mimetica e, da quanto posso intuire, poiché è seminascosto alla mia vista dagli altri miliziani, inizia a masturbarsi.
   Le urla di Cinzia crescono d'intensità. Giro il capo verso la parete per non essere testimone di tanto scempio. Rita, presa dal terrore, inizia a urlare vittima di una crisi isterica.
   Il buco stretto dello sfintere di Cinzia e lo stato d'eccitazione dell'uomo lo portano a eiaculare in breve tempo. Uno dopo l'altro i soldati sfogano i loro bassi istinti sessuali nel culo di Cinzia. Dopo un'ora di violenze la nostra compagna è lasciata libera. Cinzia si accovaccia sulla branda e non cessa di piangere.
   Sono stata testimone di uno scempio orrendo. Un atto di violenza ordinato dal loro capo che più degli altri soldati ha goduto, masturbandosi, mentre presenziava alle violenze dei sottoposti che a turno hanno abusato della mia compagna accompagnando lo stupro con grida e lazzi, inneggiando alle performance di ciascuno di loro.
   Il gruppo di uomini abbandona la stanza. Io e Rita ci avviciniamo alla nostra amica. Cinzia é piena di lividi in tutto il corpo ed ecchimosi sul viso. Ciò che ha subito la segnerà per tutta la vita, ne sono certa. A nulla serve lavarla con la poca acqua che i nostri aguzzini ci hanno messo a disposizione insieme alla cena. La rivestiamo con gli abiti sporchi e imbrattati di sangue e ci stringiamo tutte e due addosso a lei.
   La notte trascorre senza altre sorprese. Nessuna di noi tre riesce a chiudere occhio. All'alba un soldato ci porta una caraffa con del latte caldo. Lo sorseggiamo soltanto Rita e io, Cinzia resta rannicchiata nel suo letto, muta.
   La giornata trascorre celermente distratte dai rumori di fucile e cannonate che provengono da una certa distanza dal capanno. Sono numerosi gli aerei che sorvolano a più riprese le nostre teste. Prego Dio affinché qualcuno venga a liberarci, ma è una mera illusione. Mi sorregge la certezza che i soldati non hanno nessuna intenzione di ucciderci. La nostra è una carovana di soccorso umanitario intervenuta in questo territorio sotto l'egida dell'ONU. Non sarebbe facile per loro giustificare la nostra scomparsa all'umanità.
   Passano le ore e si fa di nuovo notte. Dal capanno di cui siamo ospiti ci giunge il vociare dei nostri aguzzini alloggiati al caldo delle baracche poco lontano dalla nostra. D'improvviso la porta si apre e ci troviamo al cospetto di un gruppo di soldati. Sembrano più numerosi del gruppo che li ha preceduti la sera precedente. Ho una crisi di nervi e mi metto a urlare come una indemoniata, ma non serve a farli desistere dal loro intento. Il mio corpo è preso con forza da più braccia e vengo sbattuta sopra un lettino. Sento le voci dei soldati ridere e scambiarsi parole nel loro idioma. Qualcuno mi afferra il maglione, altri mi liberano dei pantaloni e delle mutande fino a denudarmi completamente. La vista del mio corpo nudo deve eccitarli. Una moltitudine di occhi sono puntati su di me e nelle pupille scorgo la voglia di stuprarmi.
   Il respiro mi si è fatto affannoso. La cassa toracica s'innalza e abbassa di continuo, mentre le mammelle si scuotono seguendo i movimenti del corpo. Di sicuro sono riuscita a provocare in quegli uomini, da tempo emarginati sulle montagne, uno stato d'eccitazione che troverà sfogo sul mio corpo. Presa come sono nella mia vicenda personale non mi accorgo che Cinzia e Rita sono alle prese con altri stupratori. Me ne rendo conto quando odo le urla che provengono dai lettini accanto al mio.
   Il primo soldato deputato a deflorarmi è un ragazzo alle prime esperienza di sesso. Sborra quasi subito incitato dai compagni, poi è la volta di un secondo e di un terzo soldato. L'unica cosa che mi rimane da fare se voglio sopravvivere è collaborare. Non voglio fare la fine di Cinzia e ritrovarmi con il volto tumefatto dalle botte. Decido di cooperare ignorando i cazzi che mi stuprano.
   Gli uomini si alternano sopra di me scopandomi con grande foga, ma ciò che mi stupisce è che più mi scopano e più provo piacere. Cazzi d'ogni dimensione penetrano la fessura della mia fica senza un attimo di pausa. Sono bagnata fradicia di piacere e non ho più freni inibitori. I soldati si accorgono di questa mia disponibilità e prendono a preferire il mio buchetto a quello delle mie sventurate compagne. Mi sborrano nella fica lasciando a chi gli succede il pavimento della passera lubrica e scivolosa così da facilitare lo scorrimento dei cazzi. Non contenti mi costringono a inginocchiarmi e iniziano a infilare i cazzi contemporaneamente nelle cavità del mio corpo. In verità non sono mai stata un'ottima ciucciacazzi, così cerco di affrettarne l'eiaculazione aiutandomi con le dita delle mani, senza ingurgitare lo sperma.
   Tutt'a un tratto la porta si apre e i soldati si allontanano da me. Vedo avvicinarsi un uomo sulla quarantina d'anni. E' l'unico ad avere il volto scoperto, probabilmente è il più alto in grado, forse si tratta di colui che la sera prima si è masturbato: l'Osservatore.
   Scruta i corpi nudi di noi donne, poi fa cenno agli altri soldati di uscire dalla stanza.
   - Siete in missione umanitaria vero? - dice in una lingua italiana dall'accento vagamente romanesco. - Non avete nulla da temere, domani sarete libere. Abbiamo raggiunto un accordo con il vostro comando. Ma stanotte dovete venirci in aiuto soddisfacendo i nostri bisogni di soldati, capito!
   L'uomo si toglie la giacca e i pantaloni mimetici, poi si avvicina a me. Sulla pelle ho appiccicato la puzza di sperma degli uomini che fino a pochi istanti prima hanno profanato il mio corpo.
   Ora sono pronta a ricevere il cazzo dell'Osservatore.
   Mi prende alla pecorina, senza usare la violenza che ha caratterizzato i suoi predecessori. Sento il cazzo muoversi dentro di me e aderire alla mucosa della vagina.
   Le pareti della vagina iniziano a contrarsi. Muovo il bacino con piccoli movimenti, cercando per quanto è possibile di assecondarlo. Lui fa oscillare i fianchi contro la superficie delle mie natiche.
   Provo piacere, dannazione!
   Ho la fica bagnata fradicia di umore. L'uomo accelera i movimenti ma non riesce a venire. Dopo una decina di minuti, costatata l'inutilità dei movimenti, estrae l'uccello dalla fica e inizia a masturbarsi. Sborra irrigidendo tutto il corpo.
   E' la prima volta che non riesco a soddisfare un uomo. E' evidente che appartiene alla categoria di quei pervertiti che si eccitano nel guardare gli altri a scopare: non poteva capitarmi di peggio.
   - Domani mattina i miei uomini vi porteranno sulla strada statale dove siete state catturate. Un gruppo di vostri connazionali vi prenderà in consegna.
   L'uomo si allontana ed esce dalla porta.

   Come promesso i giorno seguente ci ritroviamo a bordo degli automezzi della delegazione italiana della croce rossa e rispediti in aereo in Italia.

* * * 

   L'avventura che ho vissuto mi ha cambiato in maniera profonda.  E' trascorso un anno da quando sono tornata in Italia reduce dalla missione in Bosnia. Cinzia e Rita si sono licenziate dall'ospedale. A quanto mi è dato a sapere entrambe lavorano come impiegate presso gli uffici del Comune. Dopo quanto è accaduto non hanno più voglia di sentire parlare di solidarietà. Per quanto mi riguarda nulla è cambiato, infatti, sono tornata a esercitare il mestiere d'infermiera prendendomi cura dei bisogni altrui, ma dopo questa esperienza non so più fare l'amore in maniera normale. Ho bisogno di emozioni forti per riuscire a godere, possibilmente scopando con più uomini contemporaneamente.
   Una volta al mese mi reco a Milano e prendo l'aereo per Amsterdam. Sono di casa nelle Dark Room della capitale olandese, lì ogni devianza è permessa e non ho che l'imbarazzo della scelta per soddisfare il mio e l'altrui piacere.

 

 
 

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