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MUSTAFA'
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico
adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il
contenuto possa offenderti sei
invitato a uscire.
M ustafà
aveva l'abitudine di piazzarsi all'incrocio
stradale di Barriera Bixio
per svolgere il proprio lavoro. Una
bottiglia di plastica, colma d'acqua, e
uno strofinaccio erano gli attrezzi di
cui si serviva per pulire il parabrezza
delle autovetture ferme ai semafori. Un'attività che gli permetteva di
raggranellare il denaro sufficiente per
sostentarsi, mentre una certa somma la
depositava mensilmente su un libretto di
risparmio postale che si portava sempre
appresso.
Un pomeriggio, vittima di
un malore, fu ricoverato d'urgenza in
ospedale. I medici del Pronto Soccorso
gli diagnosticarono un avvelenamento da
monossido di carbonio, provocato dall'inalazione di gas tossici;
probabilmente quelli che fuoriuscivano
dai tubi di scarico delle autovetture
che stazionavano ai semafori.
In ospedale Mustafà si
trovò subito a proprio agio e, una volta
dimesso, fece dello scantinato
della clinica in cui era stato degente
la sua dimora notturna.
Era lì che
trovava rifugio
ogni sera dopo il lavoro ai semafori
delle strade. Si coricava su una branda
che al mattino si premurava di occultare
nella parte retrostante di uno degli armadi
metallici stipati nello scantinato. Al
risveglio, prima che la clinica si
affollasse di medici e infermiere,
risaliva la scalinata che dalla cantina
conduce ai reparti di degenza. Ciabatte
ai piedi, asciugamano sulla spalla, con
indosso i pantaloni del pigiama e la
canottiera, occupava uno dei bagni
riservati ai degenti ricoverati nella
clinica.
Nella stanza da bagno si
intratteneva una decina di minuti, il
tempo necessario per lavarsi e radersi
la barba. Terminata l'operazione di pulizia
usciva dal locale per intraprendere una
nuova giornata di lavoro.
Nel periodo di
ricovero nella clinica dove presto
servizio come infermiera ebbi modo a
conoscerlo, apprezzarne
l'ingegno e la cultura, rimanendo impressionata dal modo in cui mi parlava
della sua terra: il Marocco.
Diplomato perito meccanico
viveva in Italia da
clandestino. Il viso scavato e il corpo
smagrito lo facevano sembrare più
vecchio dei suoi trent'anni. Furono
sufficienti sette giorni di degenza in
clinica per migliorarne l'aspetto e
l'umore.
Quando con le mie colleghe
scoprimmo che aveva
fatto dello scantinato la propria dimora notturna non
osammo cacciarlo, anzi, prendemmo
l'abitudine di fargli avere gli avanzi
della cucina una volta effettuata la
distribuzione dei pasti ai degenti.
Terminato il turno di
lavoro, raggiunta l'area degli
spogliatori, presi l'abitudine di soffermarmi
a parlare con lui. Mustafà sapeva
esprimersi con un buon italiano e mi
parlava di buon grado del suo paese. Gli
piaceva dissertare sul fascino dell'Alto
Atlante, delle Città Imperiali, della
Casbah di Fès e delle meraviglie di
Marrakech. Ma più di tutto magnificava
le bellezze della sua città natale:
Ouarzazate, di cui decantava i
pittoreschi paesaggi e le
caratteristiche abitazioni in terra
rossa, uniche nel loro genere.
Mi parlò di località
distanti tra loro poche ore di viaggio
in automobile,
ma così ricche di contrasti geografici,
soffermandosi a descrivermi il paesaggio desertico del
Sahara, quello degli altipiani, e delle catene
montagnose che le separano dall'oceano.
Ascoltando le sue testimonianze mi sembrò
di vederli quei posti da lui
magnificati, meditai persino di fare visita, prima o poi, a quei luoghi.
Una sera dello scorso mese,
concluso il turno di lavoro, mi
soffermai ancora una volta a parlare con
lui. Mi fece accomodare su di un
tappeto, steso sul pavimento dello
stanzino dove era solito riposare, e mi
offri un tè alla menta. La
conversazione andò avanti per una
decina di minuti, dopodiché lo salutai
e m'incamminai verso lo spogliatoio
riservato al personale femminile per
cambiarmi d'abito.
Stavo allontanandomi
quando, effettuati pochi passi, una mano
mi cinse il collo e mi otturò la bocca
impedendomi di urlare. Mi sentii
trascinare all'interno di uno sgabuzzino
senza essere in grado di liberarmi dalla
stretta. Poco dopo mi ritrovai sdraiata
sul pavimento con una doppia striscia di
cerotto fissata attorno alla bocca e i polsi
legati con una corda.
Il locale dove fui
trascinata dal mio aggressore era
completamente buio. Una debole striscia
di luce filtrava attraverso gli infissi
della porta alle mie spalle. Il cuore
sembrava uscirmi dal petto per lo
spavento. Ero scossa e tremavo tutta per la
paura. Nell'oscurità andai alla ricerca
del volto del mio assalitore, ma riuscii
a percepirne soltanto la sua sagoma scura.
Ma ero certa di conoscerne l'identità.
Mustafà stava davanti a
me. Non lo vedevo ma ne percepivo il
respiro affannoso. Il tempo trascorreva
lento, ma era solo una mia impressione.
Non riuscivo a capacitarmi della ragione
per cui mi teneva prigioniera. Mi
domandai quali fossero le intenzioni del
mio assalitore, senza trovare una
risposta, incapace di accettare la realtà
che stavo vivendo.
Con un coltello Mustafà
iniziò a tagliarmi le vesti riducendole
a brandelli. Rimasi con solo le
mutandine e il reggiseno addosso. Non
pago recise il tessuto delle mutandine
in prossimità dei fianchi e le fece
cadere ai miei piedi. Durante queste
manovre non pronunciò una sola parola. Avrei
voluto dirgli di fermarsi, che stava per
commettere un grave crimine e avrebbe
pagato cara quell'infamia, ma il
cerotto che a più strati aderiva alla
mia bocca m'impediva di articolare
qualsiasi parola. Nemmeno potevo
divincolarmi dalla stretta delle corde
che mi tenevano legate le mani.
Rannicchiata per terra rimasi in attesa
che Mustafà prendesse una qualsiasi
decisione che, infatti, non tardò ad
arrivare.
Dopo avermi sistemata
carponi sul pavimento prese posto dietro
me. Cercò in tutti i modi di farmi
abbassare il capo al pavimento. E io mi
opposi facendo resistenza.
- Se non stai buona ti
ammazzo! Non sto scherzando.
Divaricai le gambe e
abbassai il capo lasciando da parte ogni
residua resistenza. Mustafà mi cinse i
fianchi con entrambe le mani e con la
cappella prese a puntarmi il buco del
culo. Per quanto si sforzasse di
penetrarmi non fu in grado di superare
l'anello dello sfintere anale. Opponevo
una certa resistenza, ma era pur vero
che il mio buchetto era troppo stretto
per il suo arnese.
- Se non lo lasci entrare
ti taglio la gola. E' l'ultimo
avvertimento!
Sputò un grumo di saliva
sul mio buco del culo, poi mi penetrò ficcandomi
un dito dritto nell'ano facendomi
sussultare per il dolore. Subito dopo
puntò il cazzo sullo sfintere e lo
infilò centimetro dopo centimetro nella
cavità del mio intestino. Nonostante la
presenza del cerotto attorno alla bocca
urlai con quanto fiato avevo in gola.
Cercai di divincolarmi decisa a sfuggire
alla morsa delle sue mani, ma invano. Lo
spessore del suo membro lacerò i
tessuti dello sfintere.
- Sei terribilmente
stretta. - disse mentre affondava il
cazzo nella cavità.
Presa dallo sconforto
considerai che l'unica cosa che mi
restava da fare era di assecondarlo se
volevo uscire viva da quella sgradevole
situazione e soffrire il meno possibile.
Iniziai a muovere le natiche al ritmo
del cazzo, assecondando Mustafà nei
movimenti, anche se il culo
prese a dolermi sempre di più.
Mustafà incominciò ad
affondare il cazzo con vigore
rassicurato dalla mia inaspettata
collaborazione. Mentre mi scopava
articolò più volte delle parole nella
sua lingua madre. Indirizzate a me
probabilmente. D'improvviso rallentò la
corsa del cazzo, forse per non venire
troppo in fretta, pensai, dopodiché
riprese a scoparmi con maggiore lena
intercalando attimi di pausa.
- Ti faccio male? - chiese.
Il cerotto che fino a poco
tempo prima otturava la mia bocca aveva
allentato la presa dandomi la possibilità,
seppure con qualche difficoltà, di
rispondergli.
- No. - mentii. - E' un
piacere. Continua a scoparmi, non ti
fermare.
Il dolore si fece più
intenso quando cominciai a sanguinare da
qualche capillare venoso intorno alla
parete del retto. A forza di spinte e
strattoni Mustafà eiaculò nel mio
intestino. Venne tremando da capo a
piedi, poi dopo un ultimo affondo emise
un urlo di piacere e si accovacciò col
torace sulla mia schiena.
Rimase piegato per alcuni
interminabili secondi su di me, dopodiché
levò l'uccello dalla cavità e restò
immobile alle mie spalle. Colta dal
panico iniziai a tremare per la paura.
Ignare di quello che sarebbe accaduto una
volta soddisfatto i suoi
bisogni.
M'interrogai su quali
fossero le sue reali intenzioni. Avrebbe
continuato a violentarmi? Mi avrebbe
uccisa? Questi e altri pensieri mi
balenarono nella mente in quei pochi
istanti. Abbandonai la postura gattoni
impostami da Mustafà e mi misi seduta
sul pavimento. Nel buio del locale
riuscii a scorgere la sagoma della sua
figura. Immaginai che stesse
rivestendosi, ma non ne fui certa.
- Non devi raccontare a
nessuno ciò che è accaduto, capito?
Altrimenti ti ammazzo insieme a qualcuno
dei tuoi cari!
Pronunciata la minaccia mi
sciolse dai lacci che per tutto il tempo
avevo mantenuto ai polsi e mi lasciò
libera. Prima d'uscire dal ripostiglio
mi girai verso di lui.
- Non ti preoccupare, non
dirò niente a nessuno. E' stata una
esperienza molto eccitante che non
dimenticherò tanto facilmente. -
mentii.
La porta si aprì davanti a
me e la luce del corridoio illuminò il
bugigattolo dove ero stata segregata.
Raccolsi dal pavimento quello che era
rimasto della divisa da infermiera e
uscii. Mentre percorrevo il lungo
corridoio che mi separava dallo
spogliatoio ero cosciente d'avere su di
me lo sguardo di Mustafà, ma non mi
voltai.
A casa inserii uno
specchietto fra le cosce e guardai il
buco del culo da sotto. Ero piena di
lividi. Grumi di sangue erano coagulati
tutt'attorno l'ano. L'acqua della doccia
servì ad asportare dal mio corpo le
tracce di lerciume che avevo appiccicato
sulla pelle, ma la profonda ferita
interiore che mi aveva inferto Mustafà
difficilmente si sarebbe rimarginata.
Non pensai a denunciarlo, decisi che gli
avrei fatto pagare a caro prezzo
l'affronto che avevo subito.
L'acqua della doccia non
riuscì ad attenuare il bruciore nel
lume dello sfintere, fui costretta a
sedermi per una decina di minuti sul bidè
per ammorbidire i tessuti dell'ano, e
per lenire il dolore detersi sulla pelle
dell’acqua di rose. La sera successiva
mi presentai a Mustafà stringendo fra
le mani il solito vassoio della cena.
- Tieni. - dissi. -
porgendogli una scodella di minestra,
una fetta d'arrosto, e una porzione di
verdura cotta. - Ora ti devo salutare.
Ho fretta, fuori ho un amico che mi
aspetta. Magari ci rivediamo domani
sera. - dissi per rassicurarlo, poi me
ne andai.
Dopo quella sera non ho più
visto Mustafà. Il cadavere, in avanzato
stato di putrefazione, fu ritrovato nello scantinato una settimana
dopo il decesso. C'è chi afferma sia
morto per il freddo e chi per gli esiti
dell'intossicazione da monossido di
piombo che gli aveva cagionato il
ricovero in ospedale. Nessuno si è
accorto del veleno che gli ho
mescolato nella minestra dell'ultimo
pasto.
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