L a
lettura del romanzo "Il nome
della Rosa", di Umberto Eco,
aveva suscitato nella mia persona molta
curiosità verso il medioevo. Sull'onda
del libro, stimolata dalla lettura di
altri testi scritti da famosi studiosi
medievalisti quali Duby e Le Goff, fui
colta da una irrefrenabile voglia
d'intraprendere un viaggio in Francia
per fare visita alle cattedrali citate
nei testi di storia medievale che avevo
letto.
Nessuna delle mie amiche infermiere, cui
lanciai l'idea di accompagnarmi nel
viaggio, si mostrò interessata alla
proposta, così decisi di intraprenderlo
da sola alla guida di un camper
Wolkswagen California preso in affitto.
Paray le
Monial, piccola cittadina nel
Dipartimento di Saone-et-Loire, meta di
pellegrinaggi di fedeli provenienti da
tutta la Francia, fu la prima delle
città medievali che visitai durante il
mio peregrinare, da una città
all'altra, interessata a fare visita
soprattutto ad abbazie e chiostri,
luoghi di culto preferiti da quei
religiosi che tuttora consacrano la
propria esistenza dedicandosi alla
preghiera e alla solitudine, praticando
la contemplazione.
Religione e religiosi hanno da sempre
affascinato la mia fantasia. Cosicché,
prima di intraprendere il viaggio in
terra di Francia, ero certa che avrei
potuto trarre molte risposte agli
interrogativi che ancora oggi mi pongo
sul significato della mia esistenza.
Abbagliata com'ero dalla passione per la
storia e la religione, rimasi, di
proposito, lontana dagli altri turisti,
evitando qualsiasi contatto, dedicando
le mie attenzioni solo all'arte e allo
studio della storia di cui sono
riccamente permeati quei luoghi.
La
visita alla cattedrale di Bourges,
tempio di una celestiale bellezza, mi
lasciò incantata quando mi trovai a
contemplare le vetrate dalle calde
tonalità rosse e blu che avvolgevano le
mura attorno l'edificio. I frammenti di
vetro fissati con strisce di piombo
davano forma a motivi ornamentali e
immagini d'incomparabile bellezza di cui
ancora oggi, a distanza di alcuni anni
da quella visita, ne porto il ricordo.
Risalendo il territorio francese, alla
guida del Camper California, visitai
più di una città medievale, infine
raggiunsi Chartres in Normandia.
La cattedrale di Notre Dame, edificata
su un promontorio, dominava l'intera
vallata ed era di una incomparabile
magnificenza. Una pioggerella fine
bagnava la città quando, di prima
mattina, sgusciai fuori dal Campeggio
Comunale dove avevo trascorso la notte e
mi incamminai verso la cattedrale.
Il clima della giornata, nonostante il
periodo estivo, era autunnale. Per
ripararmi dal freddo e dalla pioggia mi
premurai d'indossare un maglione
pesante, di quelli a girocollo, mentre
un ombrello dalle falde larghe mi diede
protezione dalla pioggerella che
scendeva insistente.
Quando mi trovai all'interno della
cattedrale, capolavoro dell'arte Gotica,
ne rimasi talmente affascinata da
sentirmi male. Stavo con il capo rivolto
all'insù, intenta a osservare i due
rosoni del transetto e quello sulla
facciata quando, eccitata dalla
straordinaria bellezza del luogo, ebbi
un malore. Feci appena in tempo a
sedermi sul pavimento della cattedrale,
poi persi i sensi.
Quando ripresi conoscenza un uomo mi
teneva il capo sollevato sulle proprie
cosce. Dall'abito che indossava, una
lunga tunica marrone, intuii che doveva
trattarsi di un religioso. Per
facilitarmi il risveglio prese ad
accarezzarmi il viso dandomi dei leggeri
buffetti sulle guance. Da quella
posizione, accovacciata nel suo grembo,
avvertii in modo chiaro la tumefazione
che gli sporgeva dall'inguine e che
pareva aumentare sempre più di volume.
Il
frate si premurò di sollevarmi da
terra. Mi strinse al petto e con me in
braccio prese la direzione del recinto
del coro della cattedrale, a quell'ora
della mattina scarsamente frequentata da
turisti e fedeli.
Discese per una ampia scalinata e si
spinse sino a un luogo semibuio che
stimai essere la cripta della
cattedrale. Subito dopo mi ritrovai
stesa sul pavimento con il frate
inginocchiato accanto a me.
Reputai, ingenuamente, che mi avesse
condotto lì per farmi godere della
frescura della cripta, determinato a
farmi uscire dallo stato di torpore in
cui ero precipitata. Con molta
discrezione fece scivolare la mano sul
mio seno per ascoltare i battiti del
cuore e sincerarsi sul mio stato di
salute. Perlomeno questo fu ciò che
pensai, e sbagliai.
Il
contatto della mano sulla tetta mi
provocò un inusitato desiderio
sessuale. Fare sesso con un prete, per
di più fra le mura di una cattedrale,
era una di quelle fantasie erotiche che
mi portavo appresso da ragazzina. In
quell'istante considerai che poteva
essere l'occasione giusta per realizzare
quella mia fantasia. Decisi di non
ritrarmi e assecondai il monaco nei suoi
palpeggiamenti.
Accompagnai la mano che il frate
manteneva sul mio seno sino alla cinghia
dei jeans e la spinsi in basso
attraverso il cuoio. Ero preparata a un
suo rifiuto che invece non arrivò. La
mano s'incuneò sotto l'elastico delle
mutandine sino a raggiungere i peli del
pube, dolce preludio ai successivi
piaceri.
Il
prelato incominciò a esplorare i peli
intorno alla fica e lo assecondai
fingendo di avere perso di nuovo
conoscenza, anche se doveva essergli ben
chiaro che non era vero. La mano andò a
posarsi più in basso sino a raggiungere
il forellino dell'ano, dopodiché
scivolò lungo la semiluna del culetto.
Il
contatto mi fece trasalire. Impaurito
dalla mia reazione il frate accennò a
ritrarre le dita. Lo fermai in tempo
afferrandogli il braccio che stava
tirando indietro. Rassicurato dal mio
gesto accostò le dita sulla fica
soffermandosi a carezzare le grandi
labbra e il clitoride.
Un
pervertito, 'sto frate, pensai. Infatti,
sapeva troppo bene dove era opportuno
indugiare con le dita. Mi ritrovai con
la fica così bagnata che prese a
impiastrarmi i peli intorno alle labbra
col mio umore.
Tutt'a un tratto si alzò e si avvicinò
alla porta da cui avevamo fatto il
nostro ingresso nel sotterraneo. Serrò
l'uscio con un chiavistello, poi tornò
verso di me.
Approfittando della sua momentanea
lontananza riaprii gli occhi e cominciai
a guardarmi d'intorno stupita dalla
bellezza della volta della cripta. Lo
spazio tutt'attorno era illuminato dalla
calda luce dei ceri posizionati davanti
alle pareti decorate con affreschi che
raffiguravano scene evangeliche.
Tolte le
Adidas che calzavo ai piedi il frate mi
sfilò jeans e mutandine. Lasciai che mi
divaricasse le gambe e s'intrufolasse
con le ginocchia nello spazio lasciato
libero fra le mie cosce. Le sue mani
scivolarono sotto il tessuto del
maglione e mi afferrarono le tette.
Mi fu subito chiaro con che sporcaccione
d'uomo avevo a che fare dal modo lascivo
con cui mi stava palpando le tette. Era
un maiale, quel frate.
Mi
accarezzò il resto del corpo senza
fretta accrescendo il mio e il suo
desiderio di scopare. Quelle mani che
con tanto amore distribuivano l'estrema
unzione e battezzavano neonati, sapevano
anche dare piacere, soprattutto al mio
corpo, pensai.
Stavo con gli occhi chiusi, il capo
reclinato sulla sua spalla, e godevo di
quelle carezze ammaliata dal frate. Non
pago mi liberò della camicia e del
maglione, lasciandomi scoperte le tette
prive di reggiseno.
La vista dei capezzoli dovette
procurargli un certo turbamento.
Infatti, ci si tuffò sopra con la bocca
e iniziò a succhiarmeli. Ai suoi morsi
feci corrispondere dei gemiti di piacere
senza mai smettere di guardarlo in viso.
Una lunga frangia di capelli gli copriva
la fronte. Gli occhi azzurri
contrastavano col colore dei capelli
scuri. Il viso, leggermente scavato e
lugubre, evidenziava una bocca ben
modellata. Ai miei occhi appariva
bellissimo, specie con indosso il saio
monacale di un colore marrone scuro. Se
ne liberò poco dopo, forse perché gli
era d'ingombro nei movimenti.
Sotto l'abito monacale era abbigliato
allo stesso modo dei giovani della sua
età: jeans e maglietta. La cosa mi
meravigliò, ma ero così eccitata che
non stetti a pensarci sopra. In breve
tempo ci ritrovammo nudi entrambi.
La sua carnagione era scura, cosa
abbastanza inusuale per la gente di
quelle terre. Magari era solo
abbronzato, pensai. I pettorali erano
coperti da un abbondante strato di peli,
come pure le gambe.
Non ci scambiammo una sola parola,
comunicammo soltanto con l'appetito dei
nostri corpi che si cercavano per
soddisfare il piacere della carne.
Non era un cazzo molto casto il suo.
Appariva ben scappellato, segno evidente
che lo teneva in piena attività. La
cappella, piuttosto grossa e umida,
luccicava per la luce riflessa delle
candele. Istintivamente gli afferrai
l'uccello. Lo inumidii lasciando cadere
sulla cappella degli sputi di saliva,
poi cominciai a masturbarlo.
Il frate sembrò godere nel farsi
masturbare. Lo intuii dall'espressione
del viso e dai gemiti che gli uscirono
sempre più frequenti dalla bocca.
Deliziato dal tocco della mia mano si
mise cavalcioni sopra il mio torace con
le ginocchia appoggiate sul pavimento
all'altezza delle mie mammelle. Prese a
sputare saliva nell'incavo che le
separava e c'infilò dentro il cazzo.
Gli feci una spagnola stringendo con le
mani le tette attorno all'uccello che
lui si premurò di fare scorrere nella
cavità, facilitato nei movimenti dalla
saliva che, copiosa, spruzzavo sulla
cappella ogni volta che si avvicinava
alla bocca.
Incominciai a rantolare di piacere
smaniosa d'ingoiare per intero l'uccello
che in quella posizione, ahimè, mi era
negato. Il frate, all'apice
dell'eccitazione, si rimise in piedi.
M'invitò a inginocchiarmi davanti a lui
intenzionato a farmi assaporare
l'uccello nella bocca. Per non
accelerare il suo piacere evitai di
aiutarmi con le mani. Decisi che lo
avrei fatto venire a colpi di punta di
lingua.
Iniziai a trastullargli le palle con la
lingua inglobandole nella bocca come
fossero dei mandarini. Lo scroto si
arricciò fino a compattarsi. Con la
lingua presi a salire lungo i corpi
cavernosi fino a raggiungere la cappella
che pulsava con insistenza per il troppo
sangue accumulato nei corpi cavernosi.
Affondai senza alcun riguardo le labbra
sulla cappella ingoiando per intero
quella dolce prelibatezza. Presi a
succhiare con una tale intensità che
quasi mi mancò il respiro. Se la fica
era in liquefazione il merito era per il
piacere che il frate sapeva darmi, ma
anche il suo cazzo non era da meno.
Riuscivo a percepirlo ogni volta che con
la punta della lingua gli sfioravo
l'uretra. In quel caso sentivo il corpo
del frate tremare e ritrarsi per il
troppo piacere.
Aumentai i movimenti della bocca
spandendo ancora più saliva, anche se
il frate avrebbe voluto che rallentassi
l'azione in modo da prolungare il
piacere che gli stavo procurando. Invece
lo incalzai succhiandogli la cappella
come una indemoniata. Lo sentii tremare
da capo a piedi. Tirò all'indietro il
bacino e il cazzo uscì dalla mia bocca
sborrandomi in pieno viso. Allora
ingurgitai di nuovo la cappella. Le
successive sborrate finirono
direttamente in gola. Di quel seme non
ne andò persa una sola goccia.
Stavo ancora leccando lo sperma
depositato ai lati della bocca, quando
mi fece inginocchiare alla pecorina.
Riprese a menarsi il cazzo divenuto
molliccio e appena fu abbastanza duro me
lo infilò nella vagina, stupendomi non
poco, poi iniziò a scoparmi.
La
posizione alla pecorina non è mai stata
fra le mie preferite, più di tutte
preferisco quella dello smorzacandela.
Ma quel giorno, forse per colpa della
strana atmosfera che si respirava nella
cripta o probabilmente per le dimensioni
del cazzo, incominciai a urlare di
piacere con le pareti della vagina che
non smettevano di contrarsi attorno
l'uccello.
Con
le natiche entrai in simbiosi con i
movimenti del culo del frate. Eccitato
dallo stato confusionale in cui mi ero
venuta a trovare accelerò le spinte
fino a condurmi a un orgasmo talmente
profondo che sembrò bruciarmi il
cervello.
Il
frate venne una seconda volta
stramazzandomi sulla schiena. Ebbe
appena il tempo di sfilarsi e riversare
lo sperma sul culo. Restammo in quella
posizione per alcuni interminabili
secondi, poi si rialzò. Tirai fuori
dalla borsetta, che giaceva sul
pavimento, una confezione di fazzoletti
di carta e gliene porsi un paio,
dopodiché mi asciugai il fondoschiena
dalle scorie di sperma.
Indossai jeans, camicetta e maglione.
Lui si rimise il saio. Prima d'andarsene
mi diede un tenero bacio sulla piega
delle labbra e si congedò. Da una tasca
del saio tolse un cartoncino colorato
che all'istante mi sembrò essere un
"Santino" e me lo depositò in
una mano.
- Au
revoir mademoiselle. - disse.
E fu
l'unica parola che lo sentii pronunciare
durante tutto il tempo che ci
trattenemmo insieme. Andò verso la
porta della cripta, tolse il catenaccio,
e scomparve verso il recinto del coro.
Quando mi
ritrovai all'esterno della cattedrale la
pioggia era cessata. L'intensità del
rapporto sessuale mi aveva provocato una
certa arsura alla gola. Decisi d'entrare
in un bar per togliermi la sete e bere
una birra.
Nel
locale erano presenti pochi clienti. Mi
accomodai a ridosso del bancone e
ordinai una Corona. Stavo sorseggiando
la bevanda quando mi soffermai a
guardare alcuni avventori assiepati
attorno a un tavolo intenti a discutere
in maniera animata. Con grande stupore
individuai fra loro il frate che
poc'anzi avevo conosciuto nella
cattedrale. Il camice lunghissimo, di
colore marrone chiaro, che nella
penombra della cripta avevo scambiato
per un saio, era un lungo camice da
lavoro. Aveva sì una croce rossa
disegnata sul cuore, ma restava pur
sempre un camice da lavoro!
Sorpresa da quella inusitata scoperta,
mi premurai di aprire la borsetta. Fra i
documenti c'era il "Santino"
che l'uomo mi aveva consegnato al
momento del commiato. Su un lato era
raffigurata l'immagine di una croce di
legno. L'altro lato riportava una
scritta:
Alain Darriere - Pompes Funèbres.
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