LA RAGAZZA DELLA 
TAVERNA ROSSA

di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

  

    Sdraiato sul letto mantenevo lo sguardo fisso sulle travi del soffitto da cui pendeva un filo elettrico intrecciato con alla base una lampadina nuda. Rimasi a lungo a osservarla mentre ciondolava qua e là, senza una direzione precisa, sospinta dai buffi di vento che entravano dalla finestra spalancata. Allo stesso modo le dita della mia mano, fasciate intorno alla cappella, seguitavano a muoversi avanti e indietro offrendomi un appagante piacere.
   Dalla finestra irrompeva nella stanza il riverbero dei fari di qualche autovettura che transitava nella strada. Luci che tracciavano strane ombre sulle travi distraendomi dai pensieri che occupavano la mia mente mentre mi toccavo.
   L'appartamento che occupavo, un monolocale di pochi metri quadri, era quanto di meglio potessi permettermi da studente universitario. Oltre a essere minuscolo era anche privo di servizi igienici. Un cesso alla turca, situato nel ballatoio, era a disposizione degli inquilini che occupavano gli appartamenti del terzo piano dove abitavo.
   Il caseggiato, fatiscente, era occupato da studenti universitari e da un numero imprecisato di africani, ammassati come sardine in un paio di appartamenti al primo piano dell'edificio, relegati a dormire sopra delle brande a castello che arrivavano a sfiorare il soffitto.
   La stanza che mi ospitava, pressoché spoglia di elementi d'arredo, si caratterizzava per le numerose chiazze di umidità, distribuite a macchie di leopardo, sull'intonaco delle pareti.
   Una colonia di scarafaggi mi teneva compagnia ogni notte quando si spostavano, silenziosi, sul pavimento dileguandosi ogniqualvolta accendevo la lampadina che pendeva dal soffitto.
   Stavo toccandomi l'uccello nel buio della stanza, senza riuscire a eiaculare, quando avvertii bussare alla porta con una certa insistenza.
   Doveva trattarsi della padrona di casa cui ero debitore di una mensilità d'affitto arretrato, ma non avevo nessuna voglia d'intrattenermi in sua compagnia per quanto fossi eccitato.
   Tenevo l'uccello duro e una grande voglia di eiaculare, ma avrei voluto alleggerirmi rovesciando lo sperma nella bocca di qualche bella ragazza, non certo addosso a lei. Mi avvilivo ogni volta che pensavo a quanto fosse decrepita. Infatti, era più vecchia di mia madre, con una dentiera che si affrettava a togliere dalla bocca ogni volta che mi faceva un pompino. I capelli grigi, raccolti sopra la testa a formare uno chignon, le conferivano un aspetto da strega. Mentre la pelle le cascava dal corpo in una serie di pieghe alla maniera di un cappotto che le si affloscia addosso perché troppo abbondante.
   Mi bersagliava di attenzioni e io facevo di tutto per evitarla, anche se in cambio di qualche piacere, come sciacquare le mie robe e stirarmi le camicie, sopportavo che ogni tanto mi facesse qualche pompino. In fondo era brava a farli e poi una bocca è pur sempre una bocca anche quando è di una donna anziana, ma se mi prendeva il bisogno di scopare preferivo saziarmi con della carne giovane piuttosto che fare sesso con lei.
   Mi alzai dal letto e mi avvicinai alla porta che dava sul pianerottolo, attento a non fare rumore. Da una fessura intravidi le gambe e la punta dei suoi piedi.
   Indossava sandali con sottili strisce di cuoio marroni da cui spuntavano le unghie colorate di uno smalto rosso iridescente. Mi soffermai a guardare gli alluci perché era l'unica cosa che gradivo della sua persona. In più di una occasione mi aveva fatto delle seghe, stringendomi l'uccello fra le pieghe della pianta dei piedi, e la cosa mi era stata gradita. Resistetti al richiamo dei suoi piedi. Rimasi con la schiena incollata alla porta auspicando che si allontanasse al più presto. Invece non pareva propensa a farlo. Seguitò a bussare con una certa insistenza, consapevole che ero presente nell'appartamento e di proposito non le aprivo.
   Nudo, ritto in piedi, con l'uccello ormai floscio, temporeggiai in quella posizione fintanto che, spazientito, decisi di urlarle addosso tutta la mia rabbia. Ma quando aprii la porta nel pianerottolo non c'era nessuno. Era scomparsa nel nulla al pari di suo marito, deceduto qualche mese prima, vittima di un infarto. Tornai sui miei passi, infilai pantaloni e canottiera, calzai un paio di scarpe bicolore, bianche e nere, da marinaio, appartenute al defunto marito della padrona di casa, dopodiché discesi di fretta le scale senza guardarmi alle spalle, e raggiunsi la strada.
   Piazzale Inzani a quell'ora di notte, da poco erano passate le 2.00, era pressoché deserto. Raggiunsi Borgo Bernabei, distante un solo isolato, e m’infilai nella Taverna Rossa, uno dei rari locali dell'Oltretorrente aperti fino all'alba, distante pochi passi dalla mia abitazione, e vi trovai rifugio.
   La Taverna Rossa è uno spazio anarchico, underground, e a quell'ora della notte era piena giovani, per lo più universitari, che frequentavano il circolo Arci perché lo consideravano uno spazio alternativo, dove la birra costava poco e il sapore asprigno.
   Raggiunsi il bancone e da lì rimasi a guardare le persone sedute ai tavoli. La barista, una ragazza dalla pelle olivastra con la scollatura della camicetta da mozzare il fiato, mi si fece incontro per ricevere l'ordinazione e le chiesi di servirmi una birra scura.
   Nel locale il chiasso di voci era insopportabile al pari della puzza di sudore che rendeva il posto simile a una discarica. Mi guardai intorno alla ricerca di qualche faccia amica con cui scambiare qualche parola, ma non vidi nessuno, né maschio né femmina, degno della mia attenzione.
   - Vuoi dell'altro? - disse la ragazza dopo avermi servito la birra di malto in una caraffa di vetro col manico.
   - Beh, per cominciare potresti dirmi qual è il tuo nome. Sei nuova del locale? Non ti ho mai visto qua.
   - Carmen.
   - Uhm... Davvero un bel nome. Uguale a quello della protagonista di una famosa opera lirica di Bizet. - dissi dopo avere sorseggiato parte della schiuma che giungeva sino all'orlo del bicchiere. - Hai la pelle ambrata come lei. 
   - Altro?
   - Posso domandarti quanti anni hai? E' una domanda che non andrebbe fatta a una donna, però mi ha incuriosito il tuo bel faccino e il colore della pelle. Sei carina, lo sai?
   - Adesso però devo lasciarti per soddisfare le richieste di un altro cliente.
   - Non vuoi dirmelo?
   - Ventidue. Va bene così? - disse spandendosi in un sorriso a trentadue denti veri, bianchi, e bene allineati, mica finti come quelli della mia padrona di casa. 
   - L'età giusta.
   - L'età giusta per cosa? Scusa se te lo chiedo.
   - Per fare un pompino. - dissi pronunciando la parola pompino con una certa baldanza, guardandola fissa negli occhi, certo di averla sorpresa.
   La ragazza non diede risposta alla provocazione. Quando rispose lo fece alzando il tono della voce, fingendo di non avere compreso a pieno il significato delle mie parole, per colpa del chiasso presente nel locale.
   - Hai detto che vuoi fare un bambino?
   - Non proprio, ma non importa. Vai pure.
   - Allora vado.
   La ragazza si allontanò dalla postazione che occupava al bancone. La inseguii con lo sguardo e la vidi mettersi a disposizione di una coppia di ragazze, forse lesbiche, a cui servì un paio di caffè. Ripresi a bere la birra e dopo una decina di minuti mi allontanai dal locale deluso per come stavo concludendo la nottata.
   Quando misi il muso fuori dalla Taverna Rossa la strada era bagnata. Una autobotte della nettezza urbana stava allontanandosi dopo avere riversato getti d'acqua sull'asfalto portato via le chiazze di piscio lasciate e sul marciapiedi da qualche cliente incontinente della Taverna Rossa.
   Raggiunsi Piazzale Inzani e m’infilai nel portone del mio caseggiato. Salii di fretta le tre rampe di scale che conducevano alla mia abitazione evitando d'accendere le luci. Mi premurai di togliere dalla tasca dei pantaloni il mazzo delle chiavi, di cui mi sarei servito per aprire la serratura della mia abitazione, quando la lampada a soffitto del pianerottolo si accese. Alle mie spalle udii un fruscio di passi. Mi girai e la vidi.
   La padrona di casa se ne stava con la schiena appoggiata al muro e guardava nella mia direzione. Indossava una vestaglia damascata colore amaranto che le giungeva fino alle caviglie. Lo spacco della vestaglia, tenuto opportunamente aperto, metteva in mostra l’incavo delle cosce prive di mutande.
   - E' questa l'ora di fare ritorno a casa?
   Rimasi a osservarla, divertito dal ciuffo di peli scuri e grigi che spuntavano fra le cosce, indeciso su cosa avrei potuto risponderle. Non disse nessun'altra parola, mi si avvicinò e mi diede un bacio sulle labbra. La sua bocca sapeva di sanguinaccio e pane raffermo. M'infilò parecchi centimetri di lingua in gola e con una mano mi strinse l'uccello protetto dalla patta dei pantaloni, inspiegabilmente rimasto duro dopo che ero uscito dalla Taverna Rossa.
   - Sono io che ti faccio questo bell'effetto? - disse mostrandomi la schiera di denti tutti finti a cui diede seguito un ampio sorriso.
   - Il fatto è che...
   - Non venirmi a dire che lo hai duro per effetto di un'altra donna, eh.
   - E' così.
   - Non ci credo.
   - Poco fa ho proposto a una ragazza di farmi un pompino e mi è rimasto duro.
   - La conosco?
   - Non credo. E' la nuova barista della Taverna Rossa. Il suo nome è Carmen.
   - E cosa ti ha risposto?
   - Ha finto di non capire qual era il senso della domanda, eppure gliela avevo posta in modo sufficientemente esplicito.
   - Se non ti ha mandato a fare in culo è segno che ti gode.
   - Ma...
   Senza troppi preamboli mi sbottonò la patta e strinse di nuovo l'uccello nella mano. Intanto, con l'altra, prese ad accarezzarmi le labbra passandoci sopra l'estremità delle dita.
   - Sono così sola stanotte. Ti va di fare finta che io sia lei?
   - Si, facciamo così. - dissi logorato dalla sua sfacciataggine. - Facciamo finta che tu sei Carmen. - dissi spingendole il capo verso il basso.
   La padrona di casa si inginocchiò ai miei piedi. Infilò la cappella fra le labbra e incominciò a succhiarla mantenendo la mano attorno alla radice dell'uccello. 

   L'ora era tarda e non c'era pericolo di essere scoperti da qualche inquilino. In mio soccorso scattò il relè a tempo che comandava l'accensione e lo spegnimento delle luci delle scale che si smorzarono quando iniziò a mungermi l'uccello.
   Mi ritrovai al buio, davanti alla porta del mio appartamento, con una anziana donna che mi succhiava l'uccello da assatanata. Per un breve istante pensai che le potesse schizzarle via la dentiera dalla bocca che da poche settimane il dentista le aveva sistemato.
   - Andiamo dentro. - dissi, obbligandola a separarsi dall'uccello che accoglieva nella bocca.
   Stavolta non ebbi difficoltà a ricuperare la chiave dell'appartamento. Lei si premurò di togliersi la vestaglia che lasciò cadere sul pavimento, là dove avrebbe voluto coricarsi per fare l'amore. Ma avevo troppo schifo degli scarafaggi che durante la notte si mettevano in movimento nella stanza per accontentarla. Andai a sedermi sul bordo del letto e lasciai che fosse lei a liberarmi degli abiti che avevo addosso.
   A letto mi infilai fra le sue gambe, tutt’altro che lisce per la presenza di vene varicose, e incominciai a scoparla con rabbia, come un cavallo da monta. Non adottammo alcuna precauzione, tanto non ne avevamo bisogno perché era in menopausa e nemmeno avevo messo in conto che potesse trasmettermi qualche malattia infettiva, anche se con la voglia che aveva di scopare era assai probabile che se la facesse con qualche altro inquilino della casa, magari con uno degli africani che occupavano i due appartamenti al primo piano.
   Impiegai poco tempo a venire deludendo molte delle sue attese, ma si diede da fare per farmelo diventare di nuovo duro. Si mise cavalcioni sopra di me, nella posizione a smorzacandela, e cominciò a gemere di piacere mentre mi cavalcava obbligandomi a mantenere il palmo delle mani sulle tette flaccide mentre ballonzolavano nel buio in simbiosi con il movimento del bacino.
   Raggiunse l'orgasmo con sua grande soddisfazione facendolo precedere da una lunga serie di gemiti, infine esplose in un urlo liberatorio che le squassò il corpo facendola tremare tutta. 

   Quando mi destai era mattina. La padrona di casa era in piedi davanti al lavandino intenta a risciacquare la dentiera. Guardai il corpo nudo, illuminato dalla luce del giorno, e mi chiesi come avevo potuto, ancora una volta, scopare quella donna. Accortasi che ero sveglio si premurò di rimettere in bocca la dentiera, indossò la vestaglia, e venne verso di me.
   Percepii il bacio che mi schioccò sulla fronte e anche questo atto di gentilezza mi lasciò stomacato.
   Quando uscì dalla porta per fare ritorno alla sua abitazione, un piano sotto il mio appartamentp, chiusi gli occhi e pensai alla cameriera della Taverna Rossa. L'uccello mi tornò duro e ripresi a dormire.

 

 
 

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