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SCRIVERE
E' METTERE LE ALI
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
Ieri
pomeriggio, seduta a un tavolo della
Biblioteca Civica, ho scritto un
racconto erotico, l'ennesimo. L'ho
buttato giù di getto come spesso mi
succede quando sono eccitata e mi prende
una dannata voglia di mungere un cazzo. Da alcuni
giorni mi frullava per la testa una
frase di cui non riuscivo a liberarmi.
L'avevo letta qualche giorno addietro
sfogliando le pagine di un romanzo, ed
è questa:
"Mi
aveva preso la voglia di scopare
con il ragazzo della mia migliore
amica..."
La frase me la sentivo addosso,
indigesta come un macigno. Parole che si
agitavano nella mia mente come vermi
mescolati nella torba, instillandomi la
voglia d'imbastirci sopra una storia.
Ero certa che la frase
nascondeva qualcosa d'importante. Ne ho
avuto la certezza quando, al tavolo che
occupavo, insieme ad altri due studenti
universitari, ha preso posto un terzo
studente di fronte a me.
Belloccio, non troppo alto,
moro, capelli lunghi a cadere sulle
spalle, occhi scuri, bocca carnosa, mi
è sembrato la controfigura di Roberto,
il ragazzo di Lauretta: la mia migliore
amica. L'unica differenza fra i due
consisteva nel taglio dei capelli.
Il ragazzo che avevo
davanti li aveva lunghi. Roberto invece
li tiene corti a lambire le orecchie.
Gli sono stata addosso senza farmene
accorgere, inseguendo ogni suo gesto,
osservandolo mentre estraeva dallo
zainetto i libri che si è premurato di
sistemare sul tavolo, uno sull'altro,
insieme a un albo dalla copertina rossa.
Ha ignorato la mia presenza
e quella degli altri due studenti che
occupavano il medesimo tavolo. Ha aperto
la pagina di un libro e si è messo a
studiare. Quando l'ho visto colorare di
giallo una intera riga di parole con
l'evidenziatore e subito dopo un'altra,
mi ha preso la voglia di mettermi a
scrivere una storia; la mia storia.
Ho iniziato a produrre
parole, scrivendo una riga dietro
l'altra, lasciando che la sfera della
biro scorresse libera sui fogli di
carta, presa com'ero da una
irrefrenabile smania di dare sfogo allo
scompiglio ormonale che mi stava
consumando l'utero. Dopo un po' che
scrivevo mi sono ritrovata con la figa
umida e il clitoride che pulsava turgido
fra le cosce, pervasa da un forte stato
di eccitazione.
Esprimere emozioni
attraverso un racconto non è solo un
passatempo. Serve soprattutto per
guardarmi dentro. Soltanto in questo
modo posso fare emergere la troia che è
in me, anche se faccio fatica ad
accettarmi. Scrivere di cose
autobiografiche, specie nei giorni in
cui sono inquieta o peggio ancora
malinconica, mi dà la carica necessaria
per continuare a vivere.
Seduta al tavolo della
biblioteca ho iniziato a produrre parole
senza sapere cosa sarei andata a
scrivere. Avvertivo un dannato bisogno
di comporre una storia partendo da
quell'unica frase che mi frullava per la
testa ed è quello che ho fatto. Il
racconto si è delineato poco per volta
nella mia mente mentre lo scrivevo. Ho
cercato di dargli vita facendo uso di seducenti
parole, dilungandomi nei dettagli,
caricandoli di significati, esprimendo
sensazioni, parlando d'amore,
consapevole che sesso e amore sono gli
elementi propulsori della vita di tutte
le persone.
Se avevo tardato così
tanto tempo a scrivere quella storia è perché mi aveva messo paura l'incipit
iniziale. Paura di guardarmi dentro.
Scrivere racconti
autobiografici è un po' come
accomodarsi sul lettino dello psicologo
e sottoporsi a una seduta di
psicoterapia. E' questa una delle
ragioni per cui faccio fatica a
rileggere, specie a distanza di tempo, i
racconti che scrivo. Ogni volta mi
ritrovo a scoprire cose del mio
carattere di cui nemmeno immaginavo
l'esistenza, e allora mi prende la
paura.
Mettere insieme parole,
produrre situazioni erotiche, mi eccita
da stare male. Mi piace produrre una
certa tensione nelle storie che vado a
scrivere, dando la sensazione a chi le
andrà a leggerle che sta per accadere
qualcosa di molto erotico. Mi piace
immedesimarmi nei personaggi delle mie
storie. Ne divento protagonista virtuale
e traggo piacere dalle loro vicende
amorose e soprattutto dalle perversioni.
Forse la vera ragione per
cui scrivo racconti erotici è perché ho
una mente bacata. Non illudetevi, sto
mentendo, sono soltanto una pervertita. Sì, una viziosa ninfomane,
come molte protagoniste delle storie che
racconto.
Seduta al tavolo ho
impiegato meno di mezz'ora per scrivere
le prime tre pagine del racconto. Alle
sei del pomeriggio, poco prima della
chiusura della biblioteca, mi sono
ritrovata con un forte senso di calore
fra le cosce e una dannata voglia di
masturbarmi.
Avrei voluto farlo lì,
seduta stante, al tavolo, infilandomi la
mano sotto la cintura dei jeans
scandalizzando lo sconosciuto che mi
stava davanti, ignaro del mio stato di
eccitazione, ma la cosa non era
fattibile.
Avevo la figa fradicia di
umore e non volevo sottrarmi al piacere
di toccarmi fra le cosce.
Ho nascosto i fogli del
racconto fra le pagine di un libro e mi
sono alzata dalla sedia. Prima di
allontanarmi dalla stanza ho tolto il
cellulare dal ripiano del tavolo, dove
l'avevo sistemato in bella vista, e l'ho
infilato nella borsetta che ho messo
tracolla. Ho lasciato sul tavolo i
libri, una mezza bottiglia di minerale e
l'astuccio di plastica con dentro penne,
matite e evidenziatori, facendo
intendere che sarei tornata da lì a
poco, evitando che qualcun altro mi
occupasse il posto.
Quando mi sono affacciata
nell'antibagno ho scorto tre delle sei
porte dei gabinetti spalancate. Eccitata
per la strana situazione in cui stavo
per cacciarmi ho raggiunto una delle
porte lasciate aperte, dopodiché ho
messo piede in quella più vicina a me.
Ho inserito il chiavistello
della serratura alle mie spalle
impedendo a chiunque d'entrare nel
gabinetto. Sono rimasta ferma per
qualche istante, con la schiena
appoggiata al legno della porta, il
respiro in affanno, il petto gonfio, e
il cuore che pulsava veloce.
Ho cominciato a toccarmi le
tette carezzandole sopra il maglione che
portavo addosso. Ho fatto scivolare le
mani sulla pelle nuda, passando sotto il
tessuto della camicetta, e ho raggiunto
i capezzoli privi del reggiseno.
Ero consumata dalla voglia
di toccarmi l'estremità dei capezzoli e
spremerli. Ho cominciato a torcerli uno
dopo l'altro ansimando di piacere,
lasciando da parte ogni freno inibitore,
appagata dai toccamenti delle dita.
Quando con l'estremità
della mano ho attraversato la cintura
dei jeans, scivolando al disotto del
sottile tessuto degli slip, una vampata
di calore ha percorso per intero il mio
corpo. Le dita hanno incontrato i peli
del pube ed ho serrato le cosce per la
forte eccitazione. Ho sfiorato le labbra
chiuse della passera dilungandomi
nell'esplorarle, poi ho incuneato le
dita nel mezzo, lungo il solco che la
divide, infradiciandomi le dita dei
fluidi di cui era pregna.
Ho seguitato ad
accarezzarmi eccitata dal sottile
piacere che sa trasmettermi il passaggio
delle dita sull'esile tessuto delle
labbra, unica via d'accesso agli abissi
della vagina. Accarezzandomi ho
percepito il clitoride gonfio pulsare
fra le cosce. Ho infilato più di un
dito nella bocca e li ho bagnati di
saliva. Subito dopo ho cominciato a
toccarmi il clitoride strofinandolo e ho
proseguito infilando un dito, il medio,
nella vagina.
Ho cominciato a masturbarmi
stando in piedi, facendo scivolare
avanti e indietro prima un dito e poi
due dita nella passera. Mi piace essere
penetrata e penetrarmi utilizzando
qualsiasi oggetto capace di simulare la
penetrazione di un cazzo. Masturbarmi è
una delle pratiche erotiche che metto in
atto più spesso: a volte anche più
volte al giorno.
Assediata da un forte odore
di piscio ed escrementi ho seguitato a
toccarmi sino a quando sono crollata in
ginocchio sul pavimento del gabinetto.
Soltanto allora ho slacciato la cinghia
dei jeans ed ho abbassato la lampo
trascinando slip e pantaloni sino al
suolo.
Senza rendermene conto mi
sono ritrovata seduta sulle gambe, con
le natiche appoggiate ai talloni, e la
schiena accostata alla porta. Ho
seguitato a masturbarmi a lungo, poi ho
fatto scivolare il dito più in basso,
sino al foro dell'ano, ed ho cominciato
a girarci intorno senza penetrarmi. Ho
rinunciato a profanare il buco del culo
ed ho ripreso a toccarmi il clitoride
che non aveva mai smesso di pulsare. Ho
ripreso a carezzarlo, inumidendolo con
la saliva, senza raggiungere il tanto
agognato orgasmo, cosa che mi succede di
rado perché non ho difficoltà a godere
dei tocchi delle mie dita. Ho
riavvicinato il dito medio nel culo e
l'ho infilato nello sfintere
penetrandomi quel tanto che basta da
essere gradito.
Ho cominciato a muoverlo
avanti e indietro, lentamente, mentre
con l'altra mano ho infilato un paio di
dita nella vagina avvolgendole
tutt'attorno come se la mucosa fosse un
guanto. Sono venuta con un lungo brivido
che ha attraversato per intero il mio
corpo, mentre le cosce si schiudevano
intorno alla mano e tutto il resto
sembrava non finire di pulsare e
contrarsi.
Quando ho fatto ritorno
nella stanza della biblioteca dove
occupavo un tavolo insieme con altri
studenti, dei tre ragazzi ce n'era
rimasto uno solo e non era quello che
somigliava al moroso di Lauretta. Mi
sono seduta ed ho ripreso a scrivere il
racconto dal punto in cui l'avevo
interrotto prima di rifugiarmi nel
gabinetto.
Quando la campanella, che
avverte i frequentatori della biblioteca
dell'imminente chiusura dei locali, è
suonata il racconto l'avevo già
terminato con grande soddisfazione.
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