LA PANCHINA RACCONTA

di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

   

   Ho l'abitudine di rilassarmi occupando una delle numerose panchine che trovano spazio nel Parco Ducale, oppure, in subordine, su una in granito, scampata alla rimozione voluta dalla Giunta Comunale, presente in qualche piazza dell'Oltretorrente. 
   Non faccio parte della folta schiera di extacomunitari che dal primo mattino popolano le panchine della città. Nemmeno sono un pensionato. Ho trentatré anni e mi considero una persona normale. La verità è che ai posti chiusi preferisco starmene all'aperto perché mi piace godere dei benefici della luce del sole.
   Intrattenermi, seduto su una panchina, seguendo con lo sguardo le forme giunoniche delle donne che mi passano dinanzi, è il mio passatempo preferito.
   In molte città, come accade anche a Parma, molte panchine sono state rimosse dalle strade, piazze e parchi. La rimozione è un modo per scoraggiare la presenza nelle piazze e nei parchi agli extracomunitari e ai clochard, dandogli modo di non bivaccare perché considerati indesiderabili. Alcune forze politiche, pur di vedere aumentato il consenso popolare, specie in termine di voti, sono pronte a tutto, persino a farci vivere in un clima di terrore istigandoci ad avere paura di chi ha solo la singolarità di possedere la pelle di un colore diverso dalla nostra.
   Può sembrare strano che occupi il tempo libero seduto su una panchina. Ma le panchine, al pari di molti oggetti che ci circondano sono depositarie di grandi valori. Le panchine hanno il pregio di dare a chiunque la possibilità di intraprendere nuove amicizie, infatti, sono simbolo di qualcosa che non si compra perché sottintendono un modo del tutto gratuito per trascorrere il tempo libero.
   Le panchine sono anche un emblema di libertà, un posto privilegiato per chi come il sottoscritto vuole assistere allo spettacolo della vita. Infatti, da lì posso osservare le persone che mi circondano, facendo delle considerazioni sul loro modo di agire e ascoltare i discorsi che si scambiano senza essere notato.
   E' su una panchina di legno, di quelle con lo schienale a forma di onda, che ho fatto conoscenza di Natascia.

* * *

   

    Le panchine potrebbero raccontare interminabili storie d'amore. Quella che sto per raccontare ha come protagonista Natascia e il sottoscritto.
   Non ricordo il giorno preciso in cui ho fatto la sua conoscenza. Doveva essere un sabato mattina perché negli altri giorni della settimana sono occupato sul posto di lavoro, mentre la domenica ho l'abitudine di trascorrerla in sella alla bicicletta pedalando sulle colline intorno alla città.
   Me ne stavo seduto su una panchina del parco Ducale, intento a leggere le pagine rosa di un giornale sportivo, godendomi la frescura, quando un paio di donne hanno catturato la mia attenzione arrestando il passo di fronte a me.
   Capelli biondo-platino, alte più del normale, con un corpo asciutto e secco, parevano straniere; moldave, bielorusse o ucraine, probabilmente. Gran fighe, comunque, è ciò che ho pensato quando ho alzato lo sguardo verso la loro direzione.
   Quella delle due che mostrava d'avere le cosine più a posto dell'altra si è rivolta a me. Facendo ricorso a un pessimo italiano, seppure facile a capirsi, mi ha chiesto se potevano accomodarsi sulla panchina. Riscosso il mio assenso hanno sistemato le borse di plastica che pendevano dalle loro braccia sul terreno e si sono sedute sulla panchina.
   La più carina delle due ha sistemato il culo all'estremità della panchina lasciando che l'amica fungesse da cuscinetto fra me e lei. Ho ripreso a leggere le pagine del quotidiano sportivo, distratto dalla discussione che hanno avviato immediatamente, ma di cui non ero in grado di afferrare alcunché.
   L’argomento doveva essere molto scottante perché tutt'e due si erano avvampate nella discussione mantenendo alto il tono della voce. Disturbato dal chiasso delle loro parole mi sono soffermato a guardare l'espressione dei loro volti, soprattutto quello della donna che poc'anzi si era rivolta a me.
   La prima cosa che mi è passata per la mente è stata che tutt'e due, come la maggioranza delle badanti impiegate presso le famiglia della città, dovevano avere lasciato un marito e dei figli in patria. Ecco quello che ho pensato.
   Stavo riflettendo su questa ipotesi quando un uomo, che ho intuito fosse nordafricano, si è avvicinato alla panchina e ha cominciato a importunarle. All'inizio lo ha fatto a parole, poi ha cercato di metterle le mani addosso a tutte due provocando la loro reazione. Soltanto allora mi sono alzato dalla panchina e sono accorso in loro aiuto. Ho strattonato il nordafricano per la maglietta e con una spinta l'ho scaraventato a terra. Subito dopo l'ho invitato ad allontanarsi, minacciandolo che avrei chiamato la polizia se avesse insistito nel suo atteggiamento.
   Per niente intimorito dalle mie parole, malfermo sulle gambe, ha tirato fuori un coltello col manico in osso da una tasca dei pantaloni. Ha fatto scattare la lama nella mia direzione e l'ha puntata dritta contro di me. Sorpreso dalla sua condotta ho lasciato che avanzasse a piccoli passi minacciandomi con l'arma.
   Quando con un ghigno da assassino ha steso il braccio per colpirmi con la punta del coltello, mi sono scostato di lato e sono riuscito a schivare il colpo. In una frazione di secondo, sorprendendo il mio assalitore, ho lasciato partire un colpo secco con il collo del piede e sono andato a colpire dritto all'inguine fracassandogli le palle.
   L'uomo è caduto al suolo e si è accartocciato su se stesso accusando un forte dolore ai testicoli. Non gli ho dato il tempo di riprendersi, infatti, prima che gli ritornasse la voglia di intimorirmi con l'arma che stringeva nella mano, l'ho scalciato con il tacco della scarpa, colpendolo in pieno viso un paio di volte, solo allora ha lasciato cadere il coltello sul terreno.
   Dal naso e dalla bocca gli uscivano dei fiotti di sangue che ha cercato di tamponare portandosi le mani al viso, finché, scoraggiato dalla mia reazione, è fuggito via incespicando più volte nel terreno. Quando è stato abbastanza lontano mi sono impadronito del coltello e l'ho gettato oltre la siepe, lontano dalla panchina.
   Una delle donne, la più carina, quella che in precedenza mi aveva rivolto la parola, ha insistito perché ci allontanassimo al più presto sostenendo che il nordafricano sarebbe potuto tornare con degli amici e allora le cose si sarebbero potute complicate per tutti noi.
  Il cuore pareva uscirmi dal petto. Frastornato ho preso a inveire nella direzione in cui il nordafricano era fuggito. La donna mi ha preso sottobraccio e mi ha trascinato lontano da lì.
   All'uscita del parco, dinanzi a Ponte Verdi, l'amica della donna che per tutto il tempo mi aveva tenuto sottobraccio ha lasciato la nostra compagnia e ha svoltato per Via Farnese.
   Noi due abbiamo attraversato Ponte Verdi e sotto le volte del Palazzo della Pilotta, prima di fare capolino in Piazza della Pace, ho fatto conoscenza con il suo nome e lei del mio.
   Il nome Natascia, bene si armonizzava con l'immagine di donna dalla pelle chiara come la luna e dagli occhi azzurri. Mi sarebbe piaciuto approfondire la sua conoscenza così l'ho invitata a cena. Ha accettato l'invito senza frapporre nessuna esitazione, stupendomi non poco. Lì per lì ho pensato che l'avesse fatto per riconoscenza, essendo accorso in sua difesa, invece mi sono sbagliato perché in seguito mi ha confidato che le ero piaciuto da subito. Strano ma vero.
   Quella sera stessa, nel mio letto, grande come quelli di una volta, abbiamo scopato ed è stato fantastico fare l’amore con lei. E' accaduto tutto di fretta, anzi, no, perché al ristorante, quando ci siamo trovati seduti uno di fronte all'altra, una sola idea mi frullava per la testa: scoparla.
   Terminata la cena ha insistito perché ci allontanassimo al più presto da lì.
   - Potremmo terminare la serata a casa tua. - ha detto stupendomi non poco.
   Il cervello quasi mi si è bloccato per l’eccitazione. Mi sono ritrovato con i muscoli contratti, paralizzato, senza sbiascicare una sola parola.

   Credo di essermi innamorato di Natascia nel momento in cui, uscendo dal Parco Ducale, mi ha preso sottobraccio e con una delle tette ha insistito a strusciarsi contro la mia spalla mentre attraversavamo Ponte Verdi. Un movimento continuo da mandarmi in ebollizione non solo il cazzo, ma il cervello tutto. Non so se lo abbia fatto apposta, forse sì, ma non ho mai trovato sufficiente coraggio per chiederglielo.
   Camminando al suo fianco avevo il cazzo duro e la cappella che premeva contro il tessuto dei pantaloni. La protuberanza era fin troppo evidente e Natascia dovette accorgersene, ne sono certo, ma ha fatto finta di niente ignorando il mio imbarazzo.
   Per tutta la serata, a cena, non ho pensato ad altro a com’era fatta la sua figa. L'ho immaginata circondata da una fitta trama di peli biondi e poi glabra con un clitoride esteso più del normale, forse perché desideravo più di tutto circuirlo fra le labbra e assaggiarlo al più presto.
   In ascensore, mentre accompagnavo Natascia al mio appartamento, l'ho baciata. Lei ha lasciato cadere il capo all'indietro estendendo il collo perché la baciassi lì. L'ho rincorsa con le labbra e l'ho addentata ripetutamente nella nuca. 
   Natascia ha sorriso, dopodiché mi ha stretto le braccia attorno al collo premendo le tette contro il mio petto. Le ho fatto scivolare le mani attorno alle natiche, l'ho attirata con forza e stretta a me fintanto che l'ascensore ha arrestato la corsa al quinto piano dell'edificio. Ho incollato la bocca alla sua, dopodiché abbiamo seguitato a lungo a solleticarci la lingua una contro l’altra incuranti del posto dove eravamo sospesi.
   Ho divorato il suo respiro fagocitandole a più riprese la lingua nella mia bocca. Tutt'a un tratto le sue mani mi hanno artigliato i capelli. Mi ha stirato più volte il capo all'indietro con l'intento di allontanarmi la bocca dalla sua. Eccitato com'ero avrei voluto scoparla lì, sull'ascensore, sicuro che non avrebbe fatto nulla per ostacolarmi perché anche lei mostrava una dannata voglia di impadronirsi del cazzo. Un uomo certe cose le capisce.
   - Se non ti scopo entro un minuto mi salta per aria il cazzo! - le ho detto.
   Natascia mi ha deliziato di un risolino canzonatorio, dopodiché mi ha incollato le labbra sul collo e mi ha dato un morso.
   - Fallo subito, se ti va. - ha detto dopo avermi addentato il labbro.
   Sì, certo, glielo avrei messo volentieri in mano il cazzo perché lo infilasse nella figa, ma avremmo corso il rischio di farci sorprendere da qualche condomino e la cosa non mi era gradita. Ho dato una spinta con la schiena alla porta dell'ascensore e ci siamo ritrovati sul pianerottolo davanti l’ingresso del mio appartamento.
   Appena dentro casa abbiamo cominciato a spogliarci. Lei mi ha liberato dei vestiti e io ho fatto altrettanto con i suoi scaraventandoli sul parquet lungo il percorso di avvicinamento alla camera. Quando siamo stati tutt'e due nudi l'ho spinta sul letto e mi sono sistemato cavalcioni sopra di lei.
   Ho cominciato a strusciare la cappella fra le sue cosce senza penetrarla. Lei invece non ha smesso un solo istante di mordermi i capezzoli, appiccando fuoco al mio corpo.
   Doveva essere trascorso parecchio tempo dall’ultima volta che aveva fatto del sesso perché si è comportata al pari di una invasata. Ha seguitato ad affondare i denti nella mia carne in modo violento, mordendomi e succhiandomi la pelle con un ritmo ossessivo. In quegli istanti quello che ho provato è stato un inteso piacere procurato da quei morsi sulla pelle.
   Ho fatto mio il suo modo di fare l'amore. Ho avvicinato il capo a uno dei seni e ho cominciato a morderle il capezzolo. Lei ha accennato a dibattersi inarcando da prima la schiena e poi il resto del corpo per svincolarsi dal mio abbraccio.
   Mentre insistevo a morderla, passando con i denti da un capezzolo all'altro, il suo corpo è stato percorso da intense scariche di brividi. Dalla bocca le sono usciti dei deliziosi lamenti di piacere e ne sono rimasto soddisfatto.
   Tutt'a un tratto, non so bene perché, ho pensato che morsi, baci e carezze non sarebbero stati sufficienti per condurla all'orgasmo. Dava l'impressione di avere bisogno di qualcosa di più stimolante per raggiungere l'apice del piacere, ma non sapevo se fossi stato in grado di offrirglielo.
   Quando ha affondato le unghie nella mia schiena istintivamente ho urlato per il dolore. Lei ha insistito a graffiarmi e dalla bocca mi sono uscite fuori delle urla di piacere.
   - Scopami! - ha detto in un italiano quasi perfetto.
   Ha allargato le cosce e non potuto fare altro che lasciare scivolare la cappella nella vagina.
   Le pareti della mucosa, fradice di umore, si sono modellate in modo perfetto attorno al cazzo e lo hanno stretto come le ganasce di una morsa. Mi ha cinto le gambe attorno ai fianchi e premuto i calcagni contro le mie natiche, dopodiché ha accompagnato l'incedere del cazzo dentro di sé.
   Ho assecondato il ritmo del suo respiro, incollato con la bocca alla sua bocca, titillando la lingua contro la sua lingua, sbavando saliva in grande quantità. Un ritmo sincopato che ha accompagnato l’alzarsi e abbassarsi dei nostri corpi mentre scopavamo. 
   Ho seguitato a inarcare le reni cercando di andare in profondità con la cappella, finendo per andare a sbattere ogni volta con le palle contro il suo pube. Lei, per tutto il tempo, non ha smesso un solo istante di affondare le unghie nella mia carne. Lo ha fatto in modo violento, con un ritmo crescente e devastante. Più volte siamo rotolati sul letto, avvinghiati l'uno all'altra, finendo per ritrovarci a turno sotto e sopra il corpo dell'altro.
   Oramai avevo perso lucidità e mi sono abbandonato all'istinto. Ho cominciato a ferirla anch'io addentandola al collo, colmandola di tremori. Spietati come due belve feroci, abbandonati ai nostri istinti animali, abbiamo seguitato a divorarci concedendoci al piacere dei nostri corpi, incollati l'uno all'altra, sudati fradici, fintanto che abbiamo raggiunto l'orgasmo, prima io e subito dopo lei.
   Natascia lo raggiunse soltanto quando ho lasciato cadere la lingua fra le sue cosce e le ho succhiato il clitoride, bagnato del suo piacere, saziandomene fintanto che, rotto il respiro, si è lasciata andare a dei gemiti non più soffocati. Ha serrato le cosce intorno al mio collo fino a soffocarmi senza riuscire a contenere il suo appagamento.

* * *

   Io e Natascia facciamo coppia fissa da quando, tre mesi fa, abbiamo fatto conoscenza su una panchina del Parco Ducale. E' su una panchina di Piazza Picelli che ci diamo appuntamento. Lei seguita a fare la badante al servizio della signora Malvina, una donna di novant'anni, autosufficiente, che vive da sola in un appartamento di Viale Vittoria.
   A volte Natascia mi parla con nostalgia delle due bambine che ha lasciato, insieme al marito, in Moldavia. Non so per quanto tempo porteremo avanti la nostra storia, quello che so è che stiamo bene insieme, questo sì, altro non so

 

 

 

 
 

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