|
LA
FUGGITIVA
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
Salendo
l'ampia scalinata
dell'antica fortezza medievale il cazzo gli
strusciava contro la coscia e gli
rendeva difficile il cammino. Adrasto
era posseduto da un nervosismo che lo
stava divorando. Nella mente si figurava
quello che sarebbe andato a compiere da
lì a poco e la cosa lo eccitava.
Imboccò il lungo corridoio
che conduceva agli alloggiamenti degli
ospiti, evitando d'entrare in una
qualsiasi delle stanze, consapevole che
erano tutte vuote perché a quell’ora
della notte soltanto lui e la prigioniera erano
presenti nella fortezza.
Quando giunse al termine
del corridoio si trovò davanti alla
scala a chiocciola che conduceva alle
stanze del torrione. Era in quelle
celle, piuttosto anguste e prive di
finestre, che secoli addietro, i
prigionieri venivano segregati per
essere torturati.
Incontrò una certa
difficoltà nel salire i gradini di
pietra, troppo alti e malagevoli per un
disabile privo di una gamba come lui,
cui suppliva con un arto artificiale
seppure di pregevole fattura.
Gli mancavano pochi gradini
per raggiungere la cella quando decise
di liberarsi della camicia. Inspirò
delle profonde boccate d'aria nei
polmoni per calmare l'ansia che si
portava addosso, dopodiché lasciò
cadere la camicia sui gradini per
mostrarsi a torso nudo davanti alla
prigioniera.
La porta della cella si
spalancò. Un fascio di luce rischiarò
l'angusto locale in cui era ospite la
donna. Adrasto rimase sullo stipite
della porta mostrando alla prigioniera
una lunga serie di cicatrici, piuttosto
in rilievo, che gli solcavano il torace.
Si premurò di dare fuoco alla torcia,
posta a mezza altezza su una delle
pareti della stanza, dopodiché si
soffermò a guardare, con occhi
assassini, il corpo nudo della donna
rischiarato dalle lingue di fuoco della
torcia.
Vittoria era sveglia e lo
guardò impaurita. Sdraiata sulla branda
serbava le membra intorpidite. Le mani
legate dietro la schiena, e le caviglie
incaprettate, le impedivano un qualsiasi
movimento. Non aveva cognizione del
tempo che era trascorso da quando era
stata rinchiusa fra quelle mura:
probabilmente più di quarantotto ore,
pensò, stante il doppio ciclo di luce e
buio alternatosi fra le sottili feritoie
della porta da quando era lì.
Giaceva su un pagliericcio
impregnato del suo piscio con la pelle
che le puzzava da fare schifo. L'ultima
immagine che serbava nella memoria era
il momento in cui, uscendo dal
Boomerang, un american bar ubicato
nell'immediata periferia della città,
stava per prendere posto sulla propria
autovettura. Qualcuno l'aveva assalita
alle spalle ponendole intorno alla bocca
una mano, dopodiché aveva perso
conoscenza.
Adrasto rimase a lungo a
guardarla prima di decidersi ad
accostarsi a lei. Vittoria ebbe la sensazione
che il visitatore stesse per prendere
una decisione. Lo vide sfilarsi la
cintura dai pantaloni e scuoterla più
volte nell'aria prima di porsi accanto al
letto. Chiuse gli occhi e rimase in
attesa d'essere colpita dalla striscia
di cuoio che l'uomo pareva deciso a
utilizzare come frusta.
La prima cinghiata le arrivò
sulla pelle con una violenza inaudita
scuotendola dal giaciglio dove era
incaprettata. Chiuse gli occhi e urlò
di dolore, seppure impedita dalla
striscia di stoffa che le separava la
mascella dalla mandibola dilatandole la
bocca. Subito dopo fu raggiunta da una
serie di energiche cinghiate che
indebolirono le sue già scarse difese,
se mai ne possedeva.
Seguitò a contorcersi nel
letto inseguita dalla cinghia di cuoio
che seguitava a colpirla lasciandole
sulla pelle delle tracce sanguinolenti.
Digrignò i denti per non urlare,
evitando di dare soddisfazione all'uomo
che la colpiva, di cui nemmeno conosceva
l'identità, fintanto che lui cessò di
percuoterla.
Quando Vittoria riaprì gli
occhi il suo aguzzino aveva già
lasciato cadere la cinghia sul pavimento
e nella mano impugnava un coltello a
serramanico. L'uomo glielo mostrò e
subito dopo fece scattare la lama
mettendogliela sotto il naso con fare
minaccioso. Vittoria si vide riflessa
nella lama d'acciaio e ne rimase
terrorizzata.
Adrasto le passò il
coltello sull'addome dalla parte non
affilata. Il gelo dell'acciaio la fece
trasalire scuotendole lo scheletro.
Sprezzante fece scivolare la punta del
coltello sull'ombelico. Seguitò a
muoverla senza fretta facendola scendere
sino al pube. La lama arrestò la corsa
sulla pelle della fica e il suo aguzzino
le sussurrò qualcosa all'orecchio.
- Questo è il coltello con
cui ho strappato l'utero a molte donne.
Non obbligarmi a farlo anche a te. Sii
carina e non ti succederà niente.
In quell'istante Vittoria
si rese conto di essere capace di
uccidere. Una rabbia inconsulta le
scosse le viscere facendole irrigidire
tutto il corpo.
Adrasto, eccitato dalla
rivelazione che aveva fatto alla
prigioniera, incominciò a lacerarle le
mutandine che aveva ancora addosso al
pari del reggiseno. Il tocco della mano
con cui muoveva la lama era feroce,
forse disumano, come se il bene prezioso
custodito sotto il tessuto in pizzo nero
delle mutandine gli spettasse di diritto
chissà da quanto tempo.
Trapassare con la lama del
coltello il tessuto delle mutandine lo
fece ansimare per l'eccitazione che il
gesto gli procurò. Incominciò a
respirare con affanno, ma si guardò
bene dal rimuovere la lama lasciandola a
contatto con la pelle. Smise d'occuparsi
delle mutandine e salì con la lama
lungo l'addome fino a raggiungere il
reggiseno.
Legata ai polsi e alle
caviglie Vittoria era terrorizzata e del
tutto incapace di reagire. Adrasto fece
scivolare il coltello sul collo della
prigioniera spostandolo lungo l'impronta
di una carotide fino a raggiungere
l'attaccatura fra le coppe del
reggiseno. Recise il tessuto e liberò
le tette dall'involucro che le teneva
custodite, dopodiché allontanò i lembi
dalla pelle in modo brutale strappandoli
via con forza.
Le tette erano piccole, ma sode,
con le areole scure e le punte dei
capezzoli turgidi. Adrasto cominciò a
palpeggiarle i capezzoli compiaciuto
nello scorgerli ispessiti. Subito dopo,
con un deciso colpo di lama, tagliò il
bavaglio che Vittoria teneva fra i denti
e le rendeva difficoltoso il respiro.
Appena libera, piena di rabbia, lo
schernì apostrofandolo con una frase di
dileggio.
- Brutto stronzo, cosa vuoi
fare, eh?
Adrasto, soddisfatto per la
reazione, chinò il capo verso il collo
della donna e cominciò a leccarla
mentre lei faceva di tutto per
impedirglielo dimenando il capo da un
lato all'altro del giaciglio.
Il corpo della prigioniera
odorava di piscio da fare schifo.
Adrasto lambì la pelle con l'estremità
della lingua e la fece scorrere sino
all'attaccatura dei seni, lì si fermò.
Sollevò il capo e si perse
a guardare le mammelle che si alzavano e
abbassavano seguendo il ritmo del
respiro. Cominciò a leccarle i
capezzoli girandoci intorno con
l'estremità della lingua, succhiandoli
e raschiandoli con i denti. Eccitato
dalla reazione della donna che da quando
le aveva liberato la benda dalla bocca
non aveva smesso un solo istante
d'insultarlo pur avendo annodati mani e
piedi.
Mentre succhiava i
capezzoli aveva mantenuto il coltello
stretto nella mano dilettandosi a farlo
scorrere sul collo della donna,
minacciando d'ucciderla se non avesse
desistito dall'insultarlo, ma nel
contempo eccitandolo perché la
prigioniera si ostinava a urlare
esprimendogli in quel modo di non
volersi arrendere a lui.
L'avrebbe uccisa soltanto
dopo averne abusato, violentandola per
giorni interi come aveva fatto con le
donne che l'avevano preceduta in quella
cella, ma questo lei ancora non lo
sapeva.
Mentre faceva scorrere la
lama sul collo della prigioniera con
l'altra mano incominciò a carezzarle
l'addome, fino a raggiungere ciò che
era rimasto integro del tessuto delle
mutandine ormai sfilacciate.
Si meravigliò nel
costatare che il pube era privo di peli.
Fece scivolare le dita sulle grandi
labbra e le accarezzò a lungo, poi
introdusse un dito nella vagina e
cominciò a masturbarla. Subito
dopo ne introdusse un secondo e in modo
rabbioso prese a succhiarle i capezzoli
uno dopo l'altro mentre la scopava con
le dita.
Non si sorprese quando la
fica iniziò a bagnarsi, anzi, ne fu
soddisfatto, era quello che desiderava.
Aveva voglia di seppellirle il cazzo
nelle viscere e lo avrebbe fatto da lì
a poco.
Strappò di dosso alla
prigioniera quanto le era rimasto delle
mutandine e le gettò sul pavimento.
Avvicinò la lama del coltello alle
caviglie e la liberò dalla corda che le
teneva unite le gambe, dopodiché la
obbligò a mettersi seduta sul letto pur
conservandole le braccia legate dietro
la schiena. Ritto, davanti alla
prigioniera, lasciò cadere le mutande e
i pantaloni, già privi della cinghia,
sul pavimento e le mostrò il cazzo in
piena erezione.
Vittoria rimase sconcertata
nel vedere l'arto meccanico che
sostituiva una delle gambe del suo
aguzzino, ma non disse una sola parola,
persuasa che quella rivelazione le
sarebbe tornata utile nel caso le fosse
capitata l'opportunità di darsi alla
fuga.
- Succhiamelo! - le ordinò
Il viso di Vittoria, dopo
essersi seduta sul bordo del letto,
con i piedi a terra, era venuto a
trovarsi all'altezza del cazzo dell'uomo
che le stava davanti. Lui le aveva
puntato la cappella contro la bocca ed
era in attesa che gliela succhiasse. A
Vittoria non rimase altro da fare che
accogliere fra le labbra l'uccello,
succhiarlo, e prendere tempo se voleva
uscire viva da quella situazione. Di
questo ne era convinta, ma non se ne
dava pace.
- Beh, cosa aspetti?
Vittoria dilatò le labbra
e la cappella le entrò dritta nella
bocca come un siluro strisciando lungo
la superficie del palato. Rimase per
qualche istante senza fiato soffocata
dal rotolo di carne che le impediva il
respiro.
Adrasto tirò indietro la
cappella e subito dopo incominciò a
scoparla nella bocca senza incontrare
resistenza da parte della prigioniera.
Seguitò a muovere il cazzo nella cavità
facilitato in questo dalla saliva di cui
abbondava la bocca. Appoggiò una mano
sul capo della prigioniera e accompagnò
i movimenti del cazzo facendo presa con
le dita nella criniera di capelli,
mentre nell'altra mano conservava ben
stretto il manico del coltello che gli
pendeva lungo il fianco mentre si faceva
succhiare l'uccello.
Vittoria seguitò a
succhiare senza troppa passione,
prendendo tempo, sperando che il suo
carceriere, di cui non conosceva
l'identità, si distraesse, disorientata
perché le aveva confessato che con
quella lama aveva asportato l'utero a
molte donne.
Chi era costui? Un pazzo!
Perché la teneva prigioniera? Queste e
altre domande le passarono nella mente
mentre succhiava l'uccello senza trovare
nessuna risposta a quelle domande.
- Voglio venirti in bocca e
poi nel culo. Contenta?
E poi cosa le sarebbe
successo? A questo pensava Vittoria
mentre succhiava. Doveva provare a
scappare nonostante avesse le mani
legate dietro la schiena. Con le gambe
libere dalle corde avrebbe potuto
correre e andare lontano.
Mentre succhiava pensò che
avrebbe potuto staccarglielo con un
morso, il cazzo. E poi? Non era a
conoscenza del luogo in cui era tenuta
prigioniera, anche se le pareti di
pietra della stanza le davano
l'impressione di avere a che fare con un
edificio antico. Nemmeno sapeva se
l'uomo era solo, oppure se c'erano altri
carcerieri presenti nell'edificio oltre
a lui. Ma qualcosa doveva pur fare, non
poteva subire altri atti di violenza che
l'avrebbero di sicuro condotta alla
morte, perché questa era la fine che
l'uomo le aveva destinato.
- Ti piace succhiarmelo,
eh? Chissà quanti cazzi ha già accolto
la tua bocca prima del mio. Un'infinità,
vero?
Vittoria non rispose,
nemmeno avrebbe potuto farlo con la
bocca occupata dal cazzo che scorreva a
ritmo regolare fra le sue labbra. Cazzi
ne aveva succhiati un'infinità, godendo
ogni volta del piacere che sapeva darle
una cappella che le inondava di sperma
la bocca, ma in quel momento stava
provando soltanto repulsione per ciò
che l'uomo la stava obbligando a fare.
- Hai una bocca piccola,
particolarmente adatta a fare pompini.
Complimenti!
La stava scopando in bocca
da una decina di minuti e ancora non era
venuto e nemmeno pareva prossimo a
venire. Vittoria si trovò a pensare che
se avesse avuto le mani libere avrebbe
potuto impugnargli il cazzo e menarlo
mentre lo succhiava, aiutandolo a
sborrare, ma questo le era impedito dai
lacci che manteneva stretti ai polsi.
Avrebbe potuto chiedere al suo
carceriere di liberarla, rendendola
libera nei movimenti, ma sapeva bene che
non glielo avrebbe concesso. Seguitò a
succhiare con un forte senso di
prostrazione sperando che venisse al più
presto.
Tutt'a un tratto Adrasto
staccò l'uccello dalle labbra e si
inginocchiò davanti alla prigioniera.
Le allargò le gambe e si fece largo con
le guance fra le cosce fino a
raggiungere la fica che emanava un puzzo
di piscio come una fogna, poi
cominciò a leccarla.
Sorpresa dal gesto del suo
carceriere Vittoria si lasciò cadere
all'indietro e allargò le cosce
facilitando i movimenti del suo aguzzino
che sembrava trovare maggior piacere nel
leccarla piuttosto che farsi succhiare
l'uccello.
Adrasto lasciò cadere al
suolo il coltello che per lungo tempo
aveva tenuto stretto nella mano. Le
cinse le natiche e le attirò a sé,
dopodiché spostò la lingua sul
pavimento di carne della vagina e la fece
scorrere sulla mucosa. Quando inglobò
il clitoride fra le labbra e lo
scappucciò, prima di cominciare a
succhiarlo, Vittoria fu percorsa da un
violento brivido che le passò
attraverso la schiena liquefacendole la
fica.
Stava godendo e non sapeva
giustificare se stessa per quello che le
stava accadendo. L'uomo le stava
stringendo fra le labbra il bozzolo del
clitoride succhiandolo allo stesso modo
con cui lei era solita fare pompini agli
uomini. Improvvisamente le balenò
l'idea di stringere le cosce intorno al
collo del suo carnefice per tentare di
strozzarlo, se mai ci fosse riuscita,
facendo forza sulla trachea per fargli
mancare il respiro. Folgorata dall'idea
non ci pensò troppo tempo prima di
mettere in atto il progetto. Avvolse le
gambe intorno al capo del suo carceriere
e con tutte le forze che aveva in corpo
gli strinse le cosce attorno al collo.
Il suo aguzzino cercò in
tutti i modi di divincolarsi
dall'abbraccio mortale delle gambe. La
colpì con un serie di pugni sul corpo
senza riuscire a raggiungerla in volto.
La lotta fu dura e si prolungò per un
paio di minuti, fintanto che l'uomo
stramazzò fra le cosce di Vittoria
privo di sensi.
Sorpresa dalla inaspettata
libertà scansò il corpo del suo
aguzzino, venuto meno fra le cosce, e si
gettò a capofitto fuori dalla porta con
le mani legate dietro la schiena.
Discese gli scalini, in forte pendenza
del torrione in cui era ospite, senza
accertarsi se l'uomo che l'aveva tenuta
prigioniera fosse morto oppure soltanto
privo di conoscenza.
Si ritrovò a percorrere un
lungo corridoio buio senza sapere dove
andare. Era notte e nell'edificio non
sembrava esserci nessun altro oltre a
lei. Gli unici rumori che udiva erano
quelli dei suoi passi delicati mentre si
muoveva, nuda, con le mani legate dietro
la schiena, in cerca della porta che
l'avrebbe condotta all'aperto.
Si convinse che l'edificio
era troppo grande per essere una
semplice dimora. Doveva trattarsi di un
fortilizio oppure un antico maniero
forgiato con pietre e sassi.
La luce della luna entrava
dalle finestre e illuminava le stanze
che si trovò a percorrere in cerca di
una via di scampo.
All'improvviso udì un
rumore di passi che proveniva alle
proprie spalle e le prese una dannata
paura. Considerò che il suo aguzzino
doveva essersi ripreso e la stava
cercando. Quando raggiunse piano terra
individuò il portone che conduceva
all'esterno dell'edificio. Non ebbe
difficoltà a fare scorrere col mento il
catenaccio della porta e si trovò
all'aperto.
Una bianca coltre di neve
nascondeva il paesaggio tutt'attorno. Si
allontanò di qualche passo dalla dimora
che l'ospitava, dopodiché arrestò la
corsa e si soffermò a guardare
l'edificio alle proprie spalle.
Il maniero, fortificato,
trovava posto all'apice di un costone
roccioso e il suo aspetto era lugubre
quanto quello di un cimitero. In
lontananza, nel fondovalle, intravide le
luci di un piccolo centro abitato e pensò
di essere salva se fosse riuscita a
raggiungerlo.
Intirizzita dal freddo,
semi assiderata, si gettò capofitto
verso il fondovalle lasciando sul
terreno le tracce dei piedi sulla neve.
Attraversò la pineta che
la separava dal fondovalle senza mai
guardarsi indietro, cadendo più volte
nella neve, fintanto che si trovò a
poche decina di metri dalla prima casa
del centro abitato che aveva scorto
uscendo dal fortilizio. Stava per
attraversare il prato che la separava
dalla salvezza, quando un braccio le
circondò il collo facendola cadere
sulla neve e capì che per lei era la
giunta la fine.
|
|
|