L'epidemia
di peste bubbonica si era manifestata
nella Pianura Padana dopo un inverno
tormentato, ricco di abbondanti
piogge e precipitazioni nevose. Il male
nero si era propagato fra la popolazione
con estrema
rapidità rendendo vana qualsiasi forma
di difesa. Ma per la gente del Ducato di
Parma le difficoltà erano cominciate già
in autunno con le ripetute piene del
torrente che attraversa la città e la
divide in due parti.
Lo straripamento delle
acque e il clima freddo dell'inverno
avevano contribuito a sovvertire
l'equilibrio naturale dell'ambiente. La
grave carestia che ne era seguita aveva
cagionato la morte di migliaia di
persone. In seguito alle carenze di cibo
la capitale del Ducato si era riempita
di mendicanti e affamati. Uomini e
donne, ma soprattutto bambini e anziani
erano diventati di una magrezza smunta e
snervata. In questo deprecabile scenario
di malnutrizione, estrema povertà e
sporcizia, era scoppiata, del tutto
inaspettata, l'epidemia di peste
bubbonica.
Da principio il male nero,
uno dei flagelli più temuti dalle
popolazioni per gli esiti catastrofici,
sembrò annientare la città
ducale e i suoi trentamila abitanti.
Dopo solo tre mesi dal manifestarsi dei
primi casi di peste bubbonica la città
pareva morta. Le attività artigianali
erano pressoché ferme e le botteghe dei
mercanti tenevano i battenti chiusi. Per le strade non c'era
alcun movimento, tutto sembrava sospeso,
i pochi sopravvissuti all'epidemia
vivevano confinati nelle loro abitazioni
aspettando la morte non sapendo dove
trovare rifugio. Ogni mattina, all'alba,
un carretto condotto dai frati
trappisti, percorreva le strade della
città per prelevare i cadaveri,
abbandonati davanti alle case,
perpetuando un rito che pareva non
dovesse estinguersi.
A distanza di poche
settimane dal manifestarsi dell'epidemia
di peste bubbonica gran parte della
popolazione della città ducale aveva
cessato di vivere. La gente usciva dalle
proprie abitazioni soltanto quando le
monache dell'abbazia di Santa Chiara,
inspiegabilmente risultate immuni al
male nero, effettuavano, una volta alla
settimana, la distribuzione del pane,
dopodiché uomini e donne tornavano a
nascondersi nelle loro case evitando il
contatto con gli altri abitanti per
paura di essere contagiati, ignari che
il male nero si propagava esclusivamente
attraverso la puntura delle pulci e dei
pidocchi. I notabili, terrorizzati dagli
esiti infausti del flagello, erano
fuggiti dalla città riversandosi nelle
loro case di campagna, ma anche lì
erano stati raggiunti dal male nero.
La peste bubbonica, dopo un
breve periodo d'incubazione, si
manifestava sulla pelle delle persone
infette con pustole nelle zone in cui
era avvenuta la puntura degli insetti,
dopodiché si propagava nell'intero
organismo nel volgere di pochi giorni
provocando emorragie interne che
conducevano alla morte in breve tempo
chi ne era rimasto contagiato. Nei casi
meno gravi di contagio i bubboni della
peste finivano per sgonfiarsi,
espellendo del pus, ma lasciando sulla
pelle profonde cicatrici. Allo stesso
modo la febbre, accompagnata da nausea e
vomito, cessava dopo un paio di
settimane restituendo alla vita chi ne
era rimasto contagiato.
All'insorgere della
pestilenza i sacerdoti della curia
vescovile avevano messo in atto numerose
cerimonie religiose, ma soprattutto
processioni, cui aveva partecipato
numerosa la popolazione, per chiedere la
protezione a santi e beati affinché
mettessero fine all'epidemia. La colpa
del diffondersi del male nero fu
attribuita dal clero al demonio e alle
streghe, ma soprattutto agli ebrei,
ignari che il rapido diffondersi della
pestilenza era da attribuirsi
innanzitutto alla scarsa igiene delle
persone. Infatti, nessuno aveva
l'abitudine di lavarsi, anzi c'era
persino chi, soprattutto fra i nobili,
si faceva vanto di non essersi mai
lavato neppure una volta le mani nel
corso della vita, considerando la
pulizia come un atto da plebei e un modo
per sporcarsi l'anima. Ma il male nero
non aveva fatto distinzione fra chi era
nobile e ricco e chi invece non
possedeva alcunché e tirava a campare.
A distanza di soli tre mesi dall'inizio
dell'epidemia la popolazione
sopravvissuta alla pestilenza si era
ridotta a poco meno di tremila unità
rispetto alle precedenti trentamila che
dimoravano in città. E le persone
seguitavano a morire.
Frate Isidoro era uno dei
rari religiosi sopravvissuti
all'epidemia di peste bubbonica. Nessun
altro ministro di culto si era prodigato
quanto lui nell'assistere decine o forse
centinaia di uomini, donne, e bambini al
momento della morte, dispensando a tutti
l'estrema unzione. Eppure non aveva
contratto la malattia e di questo non
riusciva a farsene una ragione.
Il frate era un uomo
prestante e vigoroso e, come tutti gli
ecclesiastici, vantava un forte
ascendente sulle donne, specie sulle
monache ospiti dei conventi. Erano molte
le Clarisse dell'abbazia di S.Chiara che
si appartavano con il frate, affaccendandosi
a fare sesso, quando si recava nell'eremo per
somministrare alle monache il sacramento
della confessione oppure per celebrare
la S. Messa. Spesso le costringeva a
subire atti di sodomia, cosa che le
religiose tolleravano senza lamentarsi
per paura di essere dannate al fuoco
eterno.
La popolazione considerava
Frate Isidoro un sant'uomo per
l’umanità di cui dava prova
nell’assistere le persone colpite
dalla pestilenza, ma anche un depravato
e un vizioso, allo stesso modo di tutti
gli altri religiosi. Infatti, prima che
nel territorio del Ducato
sopraggiungesse il male nero la maggior
parte del clero manteneva pubbliche
amanti. Fra tutte le congregazioni
religiose i frati erano i più corrotti
e viziosi perché, non contenti di
congiungersi carnalmente con le monache,
non avevano nemmeno rispetto per le
novizie, limitandosi a sodomizzarle come
voleva la consuetudine, ma depredandole
di quanto avevano di più prezioso fra
le cosce.
L'antica abbazia di Colle Ecchio, di cui
era ospite la comunità di suore che
avevano fatto proprie le regole
francescane dell'ordine di S.Chiara, era
posta sulla sommità di una collina a
pochi chilometri dalla città ducale, in
una posizione panoramica fra le più
incantevoli del territorio. Le monache
del convento erano incredibilmente fra
le poche donne della città ducale, al
pari di frate Isidoro, a essere rimaste immuni
dal contagio. Per questa ragione il
vescovo, prima di tirare le cuoia,
castigato pure lui dal male nero, aveva
comandato alle religiose di recarsi ogni
giorno per le strade della città a
dispensare cibo a chi era rimasto in
vita.
Nessuno in città e nemmeno
le monache avevano chiaro il motivo per
cui erano rimaste immuni dalla peste,
attribuendolo al fervore religioso,
poiché dentro le mura dell'abbazia,
oltre a dedicare la maggior parte del
tempo alla preghiera, alla penitenza, ai
ripetuti digiuni, e a un duro lavoro dei
campi, si costringevano a restrizioni
inverosimili, spesso flagellandosi l'un
l'altra per punirsi dai loro peccati.
La comunità religiosa
della abbazia era governata da una
badessa che dettava regole ferree. Le monache,
grandi lavoratrici, producevano tutto ciò
di cui avevano bisogno per il loro
sostentamento, ma da quando era
scoppiata l’epidemia di peste
bubbonica lavoravano molto di più
rispetto a quanto erano solite fare
perché impegnate a soccorrere la
popolazione. Dentro le mura del convento
allevavano animali da cortile,
coltivavano l'orto, lavoravano la terra,
tessevano le vesti, ma quello di cui
andavano maggiormente orgogliose, di cui
in pochi erano a conoscenza fuori dalle
mura dell'abbazia, era la produzione di
un liquore medicinale, di colore bruno
verdastro, piuttosto scuro, che
spremevano dai frutti di un albero di
noce ultrasecolare che si ergeva,
rassicurante, al centro del cortile del
chiostro.
La ricetta di quello
straordinario liquore medicinale si era
tramandata nel tempo dalle monache che
si erano succedute fra le mura del
convento, ma le sue origini erano
incerte, anche se intorno a
quell’elisir, di cui anche frate
Isidoro era ghiotto, si era creato un
alone di mistero perché erano poche le
persone che, oltre alle monache, lo
avevano bevuto.
Le noci, ancora acerbe, venivano raccolte
dalle monache nella notte
di San Giovanni. Ad affaccendarsi in
questo tipo di lavoro provvedeva la più
anziana del convento, esperta nella
preparazione del liquore medicinale.
Salita sull'albero staccava solo le noci
migliori senza intaccarne le bucce.
Queste venivano esposte per l'intera
nottata alla rugiada sino al giorno
seguente. Dopo questa operazione la
monaca provvedeva a mettere le bucce in
una infusione di acquavite lasciando il
tutto a macerare al sole per un paio di
mesi. Trascorso questo tempo l'infuso
veniva filtrato per essere mescolato con
uno sciroppo di acqua e zucchero, cui
venivano aggiunti aromi naturali prima
di passare all'invecchiamento.
La tradizione voleva che in
una notte di mezza estate le monache si
radunassero nel cortile dell'abbazia e
sorseggiassero, dal medesimo calice,
quell'oscura bevanda per mantenere
intatta la salute durante tutto l'anno.
Questa usanza era stata interrotta negli
ultimi decenni quando le suore avevano
scoperto che l’infuso, se bevuto in
modeste quantità durante tutto l'anno,
aveva effetti benefici sulla
digestione, sui dolori all'addome
provocati dal mestruo e dai gas
intestinali, ma le monache non potevano
certo immaginare l'effetto che avrebbe
avuto in difesa del male nero.
Quando Suor Achiropita,
badessa del convento di Santa Chiara, si
precipitò all'ingresso del convento, la
giornata era prossima
all'imbrunire. Prima di aprire il
portone si accertò dell'identità del
visitatore attraverso lo spioncino. Non
si meravigliò quando scorse la possente
figura di frate Isidoro. Stavolta il
religioso non era solo, infatti, lo
accompagnava una giovane educanda dal
viso angelico e dall'aspetto tutt'altro
che miserevole. La badessa non rimase
sorpresa dalla presenza della giovinetta
poiché, qualche giorno addietro, il
frate, dopo che avevano fatto l'amore,
le aveva fatto richiesta di ospitare fra
le mura del convento, per un periodo di
tempo non bene definito, una persona cui
teneva particolarmente. Questo perché
riteneva l'abbazia luogo sicuro, un
posto dove pareva impossibile contrarre
la peste bubbonica dal momento che
nessuna delle monache ne era rimasta
infettata.
Quando il frate le aveva
sollecitato il favore non le aveva dato
spiegazioni sull'identità della giovane
che aveva l'aria di stargli tanto a
cuore. Avrebbe potuto essere una delle
tante amanti o persino figlia del frate
medesimo, stante la giovane età della
fanciulla così bella e priva di ogni
traccia di pustole bubboniche sul viso.
Nel caso fosse stata l'amante e non la
figlia del frate, allora avrebbe trovato
nel convento una concorrenza spietata
nelle religiose, tutte provenienti da
famiglie aristocratiche, portatrici di
buone doti, che facevano a turno l'amore
con il frate ogni volta che faceva
visita all'abbazia.
Suor Achiropita apparteneva
a un casato nobile il cui capo famiglia
l'aveva destinata alla vita religiosa
come era accaduto ad altre due figlie
prima di lei. Nonostante avesse solo
trent'anni era badessa del convento già
da sei anni. Donna dal contegno regale,
del tutto priva di freni inibitori, era
dotata di uno spirito vivace come poche
altre religiose del convento. Donna
passionale, sempre pronta a fare sesso,
sia con uomini sia con donne, ma anche
facile all'odio se fosse stato
necessario per la governabilità della
comunità religiosa di cui era a capo.
Ma più che praticare del sesso con uno
qualsiasi degli ecclesiastici che
consideravano le monache delle povere
creature annoiate e diseredate, cui
alleviare la triste vita di clausura, a
Suor Achiropita piaceva soprattutto fare
l'amore con le novizie. Disgraziatamente
da quando era scoppiata l'epidemia di
peste bubbonica nessuna ragazza aveva più
messo piede fra le mura del convento. E
la vista della giovane educanda le
provocò un forte scompiglio ormonale.
Frate Isidoro si premurò
di presentare l'educanda a Suor
Achiropita rivelandole che il nome della
fanciulla era Artemisia. D'istinto la
badessa gettò le braccia intorno ai
fianchi della ragazza e l'attirò a sé
come se fosse sua intenzione
rassicurarla. Mentre la stringeva al
cuore rimase sorpresa dalla consistenza
delle tette della giovane, soprattutto
dai capezzoli turgidi, che le
provocarono un gradito piacere, specie
al pensiero di quello che sarebbe potuto
accadere se l'avesse ospitata nel
proprio letto.
Il frate e la badessa
rimasero a lungo a parlare lasciando la
novizia in disparte, dopodiché
l'ecclesiastico lasciò la compagnia
delle due donne e fece ritorno in città.
Quando Suor Achiropita si
ritrovò da sola in compagnia della
giovane educanda giudicò che non
sarebbe stato opportuno affidarla alle
cure delle monache più anziane, come
era nella migliore tradizione del
monastero. Si sarebbe occupata lei
stessa della formazione spirituale della
novizia, determinata ad appropriarsi
prima di ogni altra monaca dei piaceri
del corpo della acerba creatura.
Chiuso il portone a doppia
mandata alle spalle del frate la badessa
infilò la chiave in una tasca, prese
sottobraccio la ragazza e la condusse,
attraverso un percorso male illuminato,
fino ai gradini che conducevano alla
torre del monastero. Era nel punto più
alto dell'abbazia che si trovava la
cella della badessa, la medesima che
avrebbe ospitato anche l'educanda.
Quando si trovarono davanti all'ingresso
della cella informò Artemisia che per
un po' di tempo avrebbero condiviso la
stessa stanza e il medesimo letto, senza
premurarsi di darle una qualsiasi
spiegazione. La cosa non sembrò
sorprendere l'educanda che non mostrò
nessuna esitazione nell'adattarsi a quella
nuova sistemazione.
Suor Achiropita accese il
cero posato su di una ciotola di
terracotta accanto al pagliericcio che
fungeva da letto. La piccola stanza si
illuminò di una flebile luce
giallastra. Una volta acceso il cero la
badessa incominciò a spogliarsi, poi
invitò la fanciulla a fare altrettanto
e liberasi di tutti gli abiti, cosa che
l'educanda si premurò di fare senza
mostrare troppo pudore né umiltà.
Nella semioscurità della
stanza la badessa rimase piacevolmente
sorpresa dalle morbide forme del corpo
della giovane quando la vide con nulla
indosso. Si fece incontro alla fanciulla
e si diede premura d'informarla che
verso le quattro si sarebbero dovute
alzare per recarsi nella cappella per
recitare, insieme alle altre monache, i
salmi del mattino. In tutta fretta le
spiegò che l'indomani l'avrebbe
assegnata a uno dei lavori che ognuna
delle monache svolgeva fra le mura del
monastero, compiti che non si erano mai
interrotti nonostante il diffondersi del
male nero.
Entrambi nude si coricarono
sul pagliericcio sistemato sul giaciglio
di legno. "Dormiremo insieme
come sorelle" disse la badessa
quando, a lume di candela spenta, si
ritrovarono stese sul fianco, con le
bocche che alitavano contro il viso
dell'altra, senza che i loro occhi
potessero specchiarsi.
Suor Achiropita
non si sorprese quando la ragazza le posò
una mano su una tetta e prese ad
accarezzarle il capezzolo. La fanciulla
pareva saperne di più di quanto avesse
dato a intendere a prima vista. La
badessa considerò che l'amicizia che la
ragazza intratteneva con frate Isidoro
avrebbe già dovuto farle intendere che
non era così ingenua come voleva
comparire.
Se nel convento si pregava,
leggeva e piangeva, era pur vero che i
soli momenti di vera estasi che le
monache raggiungevano erano quando
entravano a contatto con i corpi delle
altre religiose, scambiandosi baci e
carezze.
Il periodo del mestruo
stava giungendo a termine e Suor
Achiropita era in imbarazzo, ma alla
giovane educanda la cosa sembrò non
dare troppo fastidio oppure, più
verosimilmente nel buio della stanza,
nemmeno se ne accorse.
Eccitata dalle carezze la
badessa strinse forte a sé il corpo
della fanciulla e incominciò a baciarla
dappertutto, prima sul collo, poi sulle
tette ed infine sulla bocca. Simili
confidenze, molto diffuse fra le
nobildonne del ducato, erano proibite
oppure vissute in modo clandestino nel
convento seppure tacitamente passate
sotto silenzio.
Una assennata badessa
avrebbe dovuto dare il buon esempio sul
modo di comportarsi alle altre monache,
invece Suor Achiropita non si faceva
scrupolo di manifestare i suoi vizi e
difetti, specie quando si trattava di
sesso saffico. Tutt'a un tratto si trovò
con le gambe allargate, sospinte di lato
dalla giovane educanda che prese posto
nel mezzo occupando lo spazio con il
proprio corpo. La fanciulla chinò il
viso fra le cosce della badessa e
avvicinò la bocca a quanto di più
prezioso custodivano, poi incominciò a
leccarla per niente schifata dalla
presenza del mestruo. Seguitò a
succhiare a lungo il clitoride, fintanto
che la badessa raggiunse l'apice del
piacere e finì per addormentarsi
accarezzata dalle docili mani
dell'educanda.
Suor Achiropita seguitò a
fare l'amore con la fanciulla ogni notte
per una intera settimana fintanto che
Artemisia manifestò i primi sintomi del
male nero con febbre, nausea e vomito.
L'educanda morì nel volgere di pochi
giorni fra lo sconcerto delle monache
che non riuscirono a spiegarsi il motivo
per cui loro continuavano a essere
immuni dal male nero. L'unica certezza
che avevano era che la fanciulla a
differenza di tutte loro non aveva mai
ingollato la porzione del liquore di
noci che ogni monaca era solita
assaporare, subito dopo pranzo e cena,
per gli effetti benefici che aveva sulla
digestione e sui dolori addominali, ma
soprattutto sull'eliminazione dei gas
intestinali.
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