IL GUARDIANO DEL FARO
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
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          Un secondo di luce e quattro di buio. Un secondo di luce e quattro di buio. I fari restano nell'immaginario collettivo luoghi legati alla solitudine e al mistero. Infatti, emanano un fascino innegabile e saprebbero raccontare interminabili storie di ninfe, sirene, tempeste, e naufragi, ma le vicende più affascinanti sono quelle che il fascio di luce descrive mentre attraversa, da parte a parte, il buio della notte.
   Salendo i 128 scalini del faro, tanti erano necessari per arrivare alla stanza della lanterna, Mario si trovò a riflettere sulle circostanze che l'avevano condotto a diventare il Guardiano del Faro, ma non ci trovò niente di strano. 
   La presenza, seppure temporanea, di un altra persona nell'isolotto dove si levava il faro stava portando scompiglio nelle sue abitudini di vita impedendogli di trascorrere le giornate nei modi a lui consueti. Il nuovo arrivato era uno studente iscritto al corso di laurea in Scienze e Tecnologie per l'Ambiente e la Natura. La capitaneria di porto, responsabile della gestione del faro, aveva concesso all'intruso d'intrattenersi nell'isola per un intero mese. Il periodo di permanenza gli sarebbe servito per mettere a punto una tesi di laurea che aveva come argomento la vita di un guardiano di un faro.
   Edificato nel 1950 sulle vestigia di un'antica torre di avvistamento medievale il faro era posto all'apice di un promontorio roccioso dell'isola di San Fermo, distante una decina di chilometri dal continente. La costruzione, di forma cilindrica, alta diciotto metri, era tinta con strisce orizzontali bianche e nere, circondata da cespugli di erica, foglie aghiformi e piccoli fiori a grappolo che spandevano nell'aria un gradevole profumo di menta.
   Mario viveva sull'isola da più di vent'anni. Congedato dalla Marina Militare, in cagione di una malattia reumatica, era diventato guardiano del faro e dall'isola non si era mai mosso.
   Per molti anni, al calare della sera, aveva provveduto ad accendere la lampada del faro. Ogni quattro, cinque ore, aveva caricato a mano il meccanismo a orologeria che regolava la luminosità della lampada e la successione dei periodi di luce e quelli di eclissi, trascorrendo le notti a vegliare la lampada, stando attento che non si spegnesse, perché punto di riferimento per i marinai che solcavano il mare con le loro barche. Da alcuni anni la capitaneria di porto aveva provveduto a installare un meccanismo automatico di gestione della lampada. Un gruppo di continuità, alimentato elettricamente, entrava in funzione allorché faceva buio. Il congegno, comandato da una cellula fotovoltaica, si arrestava col ritorno della luce del giorno.
   Una motovedetta della guardia costiera approdava nell'isola ogni quindici giorni provvedendo a rifornirlo di cibo e acqua potabile. Da quando aveva preso possesso del faro non aveva conosciuto un solo giorno di ferie, preferendo trattenersi nell'isola prigioniero del mare e dei venti che lo accerchiavano d'intorno, piuttosto che tornare a vivere fra la gente.
   Il suono di una vecchia radio a modulazione di frequenza, insieme al rumore dell'acqua che si rifrangeva sugli speroni di roccia, corrosi dai violenti assalti delle onde, era la sua unica compagnia. Negli ultimi anni aveva limitato i lavori di aggiustaggio all'edificio attiguo al faro, assegnatogli come dimora, dedicandosi quasi esclusivamente alla manutenzione ordinaria del gruppo elettrogeno, e a quello degli accumulatori di corrente elettrica, consacrandosi alla pulizia giornaliera del gruppo ottico e della potente lampada alogena da 1000 watt che dava luce al faro, la cui portata era visibile fino a 35 miglia di distanza.

   La giornata era uggiosa, dalle prime ore del mattino si era levato un forte vento di libeccio, il mare era mosso e il cielo minacciava tempesta. Mentre saliva i 128 scalini che conducevano alla stanza della lanterna si aggrappò più volte al corrimano per non andare in affanno col fiato, disinteressandosi dello studente universitario che lo seguiva dappresso come un'ombra. Quando si trovarono nella stanza della lanterna. Mario controllò il vecchio meccanismo rotante che prima dell'installazione del gruppo elettrogeno era solito azionare manualmente, poi si preparò a rispondere alle domande che lo studente gli avrebbe rivolto come faceva ogni mattina quando mettevano piede nella stanza.
   Si diede da fare a pulire e lucidare ogni oggetto collocato nell'angusto locale, dedicandosi in particolare alla cura della lente di Fresnel; un sistema ottico che serviva a concentrare la luce prodotta dalla lampada in un unico punto, potenziando il fascio luminoso che ogni notte si estendeva come un razzo fuori dalla torre del faro.
   Dalla stanza che ospitava il sistema ottico Mario e il suo ospite potevano scrutare il mare tutt'attorno all'isola. D'improvviso un gruppo di falchi fecero capolino sulle loro teste e planarono fra i cespugli di erica, dai fiori porporini, che ricoprivano gli speroni di roccia e acquistavano maggiore bellezza allorché erano illuminati dai raggi di sole che si facevano largo fra le nubi.
   - Non soffre di solitudine a condurre una vita da eremita in un posto lontano dal mondo come questo? - disse il giovane.
   Mario non diede risposta alla domanda dello studente, anzi la ignorò di proposito e proseguì a lucidare la lente di Fresnel servendosi di uno strofinaccio imbevuto di alcool denaturato, dopodiché diede inizio a un nuovo argomento di conversazione.
   - L'antica usanza di tenere accesi dei fuochi sulle coste, per indirizzare i naviganti verso porti sicuri, talvolta aveva delle conseguenze drammatiche. - disse Mario.
   - Perché?
   - C'era chi usava spostare i fuochi indirizzando le navi dove la costa era rocciosa facendole naufragare di proposito per poterle saccheggiare.
   - Fortuna che adesso i fari sono in muratura.
   - Eh, sì.
   - Ma sono tutti uguali?
   - No, ogni faro emette un segnale ottico preciso. E in base al tipo di segnale luminoso viene identificato dai naviganti.
   - E il nostro faro come viene individuato?
   - Questo faro effettua un secondo di luce e quattro di buio.

   Lo studente aveva messo piede nell'isola già da un paio di settimane e ci sarebbe rimasto per il periodo di un mese, dopodiché avrebbe fatto ritorno sul continente. Troppo poco tempo per assimilare la vita da eremita che conduceva Mario, ma sufficiente per desiderare di tornare sulla terraferma al più presto.
   Mario aveva accettato la presenza dell'ospite con riluttanza. Era infastidito dalle sue continue domande e dalla smania che il ragazzo manifestava nel volere entrare in confidenza. A più riprese si era sentito chiedere se soffriva di solitudine e perché non c'era neanche un animale a tenergli compagnia nell'isola, magari un gatto o un cane.
   Una sera, dopo che avevano finito di cenare, lo studente aveva tratto dal portafoglio la fotografia della fidanzata, e gliela aveva mostrata con una certa soddisfazione. Mario aveva stretto fra le dita l'immagine come si trattasse di una preziosa reliquia. Aveva guardato con attenzione il ritratto della ragazza passando le dita sull'emulsione della fotografia più volte.
   Era la prima volta che scorgeva il volto di una donna, seppure in fotografia, da quando aveva messo piede nell'isola, ed erano trascorsi vent'anni da quel primo giorno.
   Quella notte si ritrovò con le mutande insudiciate di sperma a seguito di una polluzione notturna. Colpa del sogno erotico che gli aveva provocato l'immagine della ragazza, probabilmente, o forse no.
   Pochi giorni prima di fare ritorno sul continente lo studente si trovò in compagnia di Mario sullo sperone di uno scoglio, distante un centinaio di metri dal faro, a scrutare il continente lontano una decina di chilometri. In quella occasione trovò il coraggio di porgergli la domanda che più d'ogni altra gli stava a cuore.
   - Non so come sia potuto rimanere ospite sull'isola per tutto questo tempo senza la compagnia di una donna. Io impazzirei.
   Mario non rispose, girò il capo verso il faro e sorrise. Carlo volse lo sguardo nella direzione del totem a strisce trasversali bianche e nere, simile a un fallo, e come d'incanto tutto gli fu chiaro. Ma ciò che aveva scoperto non l'avrebbe scritto nella tesi di laurea.

 

 

 

 
 

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