U scendo
dal portone di casa notai la
presenza di un fazzoletto di carta
incastonato nel tergicristallo del
parabrezza della mia Opel Tigra.
Qualcuno, nottetempo, l'aveva collocato
sul vetro della vettura parcheggiata
nella strada, ma chi era stato? Stavo
per gettare il fazzoletto quando mi avvidi
della presenza di una
scritta a stampatello, probabilmente
realizzata con un pennarello nero.
AMORE MIO MI MANCHI
QUESTA NOTTE AVREI VOLUTO
PASSARLA CON TE
|
Esaminai con cura la
calligrafia, ripiegai il fazzoletto e lo
ficcai nella borsetta. Mi accomodai sul
sedile dell’automobile e girai la
chiavetta dell'accensione. Il motorino
d'avviamento diede alcuni sussulti, poi
si arrestò. Esegui la manovra daccapo,
incaponendomi nel mettere in moto i
pistoni del motore. Dopo tanto insistere
ci rinunciai. Scesi dall'auto imprecando
contro me stessa per non avere collocato
l'auto al riparo nel garage quando avevo
fatto ritorno a casa la sera precedente.
Alle 8.00 avrei dovuto
prendere servizio in clinica ed ero
maledettamente in ritardo. Mi incamminai
verso la fermata dell'autobus, distante
un paio di isolati dalla mia abitazione,
per salire sul mezzo pubblico e
raggiungere l'ospedale.
Quando raggiunsi la fermata
dell'autobus un gruppo di adolescenti
occupava il marciapiede. Presi atto che maschi e femmine erano
vestiti allo stesso modo, omologati a un
sistema sociale che fa credere a
ciascuno di essere unico, libero e
diverso. Invece tutti indossavano jeans,
giubbotto, felpa, scarpe da jogging e
sulle spalle ingombranti zainetti.
L'autobus sopraggiunse dopo
breve tempo. Salirvi si rivelò una
impresa non da poco. Il bus era stipato
all'inverosimile di persone ammassate
come sardine in scatola. Nell'istante in
cui la porta a soffietto si aprì mi
arrampicai sui gradini, spinta in avanti
da qualche studente.
Davanti alla macchinetta
obliteratrice infilai il biglietto nella
fessura e lo annullai. Fui l'unica a
farlo fra le persone salite sul bus.
Rimasi in piedi nel
corridoio, aggrappata al passamano,
sballottata da una parte all'altra del
mezzo pubblico causa le ricorrenti frenate
e accelerazioni. Qualcuno
dei passeggeri, accalcati alle mie spalle,
approfittò dei frequenti sobbalzi del
bus per tastarmi le curve
del culo. Stanca di queste attenzioni mi
girai e mi guardai attorno col ghigno di
chi è incazzata e vorrebbe ficcare un
paio di dita negli occhi a qualcuno.
Anche se, in verità, mi aveva fatto
piacere ricevere le attenzioni di quelle
mani che presumevo fossero di qualche
insolente adolescente.
Il flusso di persone che
salivano e scendevano dall'autobus a
ogni fermata era continuo. Nel momento
in cui si liberò un posto a sedere mi
precipitai a occuparlo, svincolandomi dalle attenzioni
dei ragazzi rimasti in piedi alle mie
spalle, molti dei quali, nonostante le
mie lagnanze, avevano seguitato a
palparmi il culo.
L'autobus proseguì la
corsa passando attraverso la città.
Quando raggiunse l'ospedale scesi alla
fermata in corrispondenza del Pronto
Soccorso.
L'area d'emergenza era
intasata di persone e lettighe. Dopo
essermi cambiata d'abito presi servizio
in uno degli ambulatori scusandomi con
le colleghe di lavoro per il ritardo.
- La mia Opel Tigra
stamattina mi ha lasciata a piedi. Non
era mai accaduto prima d'oggi. Colpa del
gelo di stanotte, probabilmente. - dissi
per giustificarmi.
- Sei sempre la solita.
Erika, non cambierai mai. - mi diede
risposta Emma impegnata a broncoaspirare
un paziente.
La telefonata
della centrale operativa del 118 giunse
all'accettazione del Pronto Soccorso
poco dopo le tre del pomeriggio, quando
stavo lasciando il servizio per fare
ritorno a casa.
"E' precipitato un
aereo nelle campagne, ad una decina di
chilometri dalla città" riferì
una voce concitata di un operatore del
118. "Preparatevi ad accogliere
i sopravvissuti, se ce ne saranno.
Ancora non sappiamo quanti passeggeri
erano a bordo del velivolo. Pare si
tratti di un aereo di linea precipitato
su un gruppo di case"
Nel volgere di pochi minuti
il personale medico e infermieristico in
servizio al Pronto Soccorso fu
mobilitato. Chirurghi, strumentiste, e
operatori sanitari dei reparti di
chirurgia misero in condizione le sale
operatorie d'accogliere più pazienti nel
caso fosse stato necessario effettuare
interventi chirurgici d'urgenza. Chi
come me aveva terminato il turno di
lavoro, e stava per allontanarsi
all'ospedale, fu invitato dai
responsabili della Direzione Sanitaria a
dare sostegno ai colleghi di turno.
Mezz'ora dopo la
proclamazione dello stato di emergenza
arrivarono al Pronto Soccorso le prime
ambulanze, annunciate dal sibilo delle
sirene.
La notizia dell'incidente,
diffusasi nell'arco di breve tempo in
tutta la città, coinvolse una grande
folla di curiosi attorno alle rampe
d'accesso del Pronto Soccorso
compromettendo il passaggio delle
ambulanze e dei soccorritori.
Nell'eliporto, situato
nell'area d'emergenza, cominciarono ad
atterrare e decollare gli elicotteri del
118. L'andirivieni di infermieri, medici
e poliziotti era continuo. Molti
infermieri incominciarono ad affluire
dai reparti di degenza, desiderosi di
coadiuvare il personale del Pronto
Soccorso impegnato nel fare fronte alla
drammatica situazione in cui eravamo
precipitati.
I militi delle ambulanze
scaricavano di continuo i corpi
sanguinolenti di persone ferite insieme
a quelli dei cadaveri che i medici
rianimatori, dopo averne constatato il
decesso, si premuravano d'indirizzare
all'obitorio facendo spazio negli
ambulatori ai pazienti che necessitavano
di assistenza immediata. Molti dei
sopravvissuti furono condotti nelle sale
chirurgiche e operati d'urgenza. I meno
gravi furono medicati negli ambulatori e
di alcuni mi presi cura anch'io.
Nell'area di emergenza il
caos era generale. Con il sopraggiungere
della sera il Pronto Soccorso fu invaso
dai parenti dei passeggeri dell'aereo
precipitato. Le urla di disperazione si
accavallavano alle urla dei feriti
mentre il personale sanitario si
sforzava, per quanto possibile, di fare
fronte a tutti loro.
Alle otto di sera, a
distanza di cinque ore dalla caduta
dell'aereo, i militi di un'ambulanza si
presentarono al Pronto Soccorso con
l'ennesima vittima della sciagura.
- Questa ragazza l'abbiamo
raccolta a qualche chilometro di
distanza dal luogo disastro. Vagava per
la strada mezza nuda in stato
confusionale. Qualcuno l'ha vista in
queste condizioni e ci ha avvertiti. Noi
l'abbiamo portata qui.
- Venite avanti,
conducetela in ambulatorio. - dissi,
indicando ai militi uno degli studi.
I militi sospinsero la
lettiga dentro la stanza e restarono in
attesa.
- Adesso uscite, grazie, ci
prendiamo cura noi della donna. - dissi
liberandoli da ogni impegno.
La ragazza, stesa sulla
lettiga, era protetta da un lenzuolo che
le copriva il corpo. Una maschera di
sangue, mista a terriccio, le nascondeva
i lineamenti del viso. I capelli lunghi,
scomposti e infradiciati di melma,
celavano gli occhi che manteneva
socchiusi. Roteava di continuo il capo
da una lato all'altro della lettiga
esternando dei lamenti.
Il corpo tremava tutto. Non
riuscii a comprendere se era per lo
shock dell'incidente oppure per il
freddo.
- Non avere paura. - dissi
- Ti trovi in ospedale, ci prenderemo cura di
te.
Tolsi il lenzuolo che
nascondeva il corpo della ragazza alla
nostra vista. Addosso aveva soltanto una
felpa lacera e sporca. Sotto l'ombelico
era nuda con la pelle infradiciata di
terra e sangue.
Istintivamente la ragazza
portò le mani al pube coprendo le parti
intime, poi cominciò a singhiozzare.
Non feci troppo caso alla presenza del
liquido filamentoso presente fra le
cosce, occupata com'ero nel verificare
che non vi fossero tracce di ferite sul
volto.
Coadiuvata da una collega
le pulii il viso con dell'acqua
ossigenata preoccupandomi di rimuovere
il sangue raggrumato sulla pelle. Dopo
avere eseguito la pulizia il viso della
ragazza tornò ad avere un aspetto
decente. Una profonda ferita lacero
contusa le solcava il cuoio capelluto.
Il medico le applicò dieci punti di
sutura e chiuse la ferita. Passai a
detergere di liquido l'addome e
l'inguine levandole il sangue e il
terriccio che la insudiciavano. Solo
allora capii cosa le era accaduto.
Il fluido lattiginoso che
le colava dalla vagina era sperma.
Attorno alle grandi labbra, aperte come
ali di farfalla, erano presenti numerosi
grumi di sangue non perfettamente
coagulati. Stentai a credere che
qualcuno, soccorrendola, l'avesse
violentata.
Il ginecologo, chiamato dal
medico rianimatore, confermò la
violenza sessuale. La ragazza era
stata stuprata da più uomini che
avevano approfittato dello stato
confusionale per violentarla.
Abbandonai l'ospedale verso
le dieci di sera dopo sedici ore di
lavoro. Stremata raggiunsi la piazzola
alla fermata dell'autobus davanti al
Pronto Soccorso, dopodiché rimasi in
attesa che sopraggiungesse il bus
notturno.
Tolsi dalla borsetta il
cellulare e diedi un occhiata al
display. Selezionai la messaggeria e
scorsi gli SMS. Ce n'era più di uno ed
erano tutti di Flavia. Riportavano le
medesime parole:
.
NON SO STARE LONTANA DA TE
TI AMO
|
Digitai il numero del suo
cellulare e rimasi in attesa di una
risposta. Non trascorse molto tempo, poi
la sua voce prese forma.
- Ciao! - dissi.
- Cavoli, ma dove sei? E'
tutto il pomeriggio che ti cerco. Perché
non hai risposto alle mie chiamate?
- Sto uscendo
dall'ospedale. Non immagini cosa è
successo.
- Ho sentito la notizia del
disastro al telegiornale nazionale, per
questo ero preoccupata.
- Sto bene, magari un po'
stanca, ma sto bene.
- Vai a casa?
- Sì, penso di sì. Sono
in attesa che sopraggiunga l'autobus
notturno per andare a letto.
- Non hai l'auto?
- Stamattina la mia Opel
Tigra non ha voluto saperne di mettersi
in moto. Colpa della batteria scarica o
del biglietto che stanotte mi hai
sistemato sul tergicristallo.
- Dici?
- Mi ha fatto piacere
riceverlo.
- A me di scriverlo.
- Lo so.
- Aspettami che ti vengo a
prendere. Fra dieci minuti sono lì da
te.
- Fa lo stesso, non
disturbarti.
- Scherzi? Aspettami.
Flavia non mi lasciò il
tempo di replicare. Interruppe la
comunicazione obbligandomi ad attendere
il suo arrivo. Poco più in là, sulla
rampa che conduceva al Pronto Soccorso,
il flusso di autovetture con a bordo le
autorità, scortate da pantere della
polizia e gazzelle dei carabinieri, era
continuo.
Flavia mi raggiunse da lì
a poco. Aprì la portiera della vettura,
si sporse verso di me, avvicinò le
labbra alle mie, e mi baciò.
- Ciao. Tutto bene?
- Sì. - risposi, poi
incominciai a piangere e mi accucciai
fra le sue braccia.
*
* *
Dopo l'apocalittica giornata vissuta al
Pronto Soccorso quello di cui avevo un
gran bisogno era di ricevere gesti
affettuosi e solo Flavia avrebbe potuto
darmeli. Mi ritrovai distesa nel mio
letto con Flavia accanto a me, sul
fianco, e cominciammo a baciarci.
Mi è sempre piaciuto
baciare e essere baciata. Penso che il
bacio sia l'atto d'amore più intimo e
appassionato che si possono scambiare
due innamorati.
Il bacio ha il dono di
mettermi addosso una straordinaria
vitalità, al contrario dell'orgasmo che
spesso mi lascia melanconica e non so
spiegarmene la ragione.
La sua lingua incominciò a
muoversi come un aspide nella mia bocca
blandendomi il palato. Lasciai che
esaltasse la bramosia che mostrava nel
possedermi. Corrisposi al suo slancio
contraccambiandola, infilando la lingua
nella sua bocca. In quell'istante
cominciai a tremare tutta.
Le nostre lingue
cominciarono ad agitarsi e finimmo per
leccarci a turno la lingua, complici di
un modo tutto nostro di fare l'amore.
Flavia fece
scorrere le dita intorno alla mia figa.
La imitai e allungai la mano sul rado
cespuglio di peli che sovrastava il suo
pube. La penetrai con due dita mentre
lei si faceva premura di sospingere le
sue nella mia vagina. Accostai le cosce
attorno alla sua mano adoperandomi con
una stretta forte e tenace, come fossero
due ganasce, lasciando che mi scopasse.
Il suo corpo fu
attraversato da scosse e tremori che si
fecero sempre più insistenti. Mi
compiacqui d'essere io la causa del suo
stare male scopandola con le dita nella
vagina.
Rovesciai Flavia sul letto
e le fui sopra, figa contro figa. Le
stesi le braccia sopra il capo e
cominciai a leccarle le tette e
succhiarle i capezzoli. Lei afferrò con
entrambe le mani i miei capezzoli e li
pizzicò con insistenza. Cominciai a
muovere il bacino avanti e indietro
strascicando la figa sul suo pube.
Mugolai di piacere come una
cagna in calore. Mi prese una dannata
voglia di venire quando sentii l'orgasmo
imminente.
Flavia se ne accorse. Mi
rovesciò la schiena sul letto e mi fece
allargare le gambe, dopodiché si pose
ai miei piedi. La sua bocca si appropriò
del clitoride e cominciò a succhiarlo.
Io iniziai a gemere a ogni suo affondo.
Flavia mi stava appiccicata
e si compiaceva nello spremere con le
labbra il piccolo bocciolo erettile. Le
è sempre piaciuto appagare i propri
sensi succhiandomi il clitoride, e io ho
sempre considerato un privilegio subire
le attenzioni che riversa su di me. Lei
è l'unica donna capace di farmi
raggiungere degli orgasmi a grappolo.
Flavia è diversa da tutte
le donne che ho posseduto: lei è
speciale. Non è la titanica bellezza
del suo corpo che me la fa apparire
importante. Lei è l'altra parte di me,
quella che avrei voluto essere e non
sono. Per questo sto magnificamente bene
quando sono in sua compagnia.
All'una di notte Flavia uscì
dalla mia abitazione. Sull'uscio mi
diede un ultimo bacio e si accomiatò.
Feci appena in tempo a dirle:
- Un bacio ai bambini.
Salutami tuo marito.
A letto mi addormentai
quasi subito. La trapunta profumava
della sua pelle, ma quell'odore potevo
sentirlo solo io. Gli altri di Flavia
potevano cogliere solamente la sua
bellezza.
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