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IL
CAPOLINEA
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
Il
treno rallentò la corsa in prossimità
della stazione di Parma. Dinanzi a una
porta d'uscita della
carrozza ferroviaria ero in attesa che
il convoglio arrestasse la corsa per
scendere a terra. Un inaspettato
rimbalzo provocato dall'improvviso
arresto della
motrice, anticipato dallo strepitio dei
freni delle ruote dell'intero convoglio,
mi fece perdere l'equilibrio esponendomi
al rischio di capitombolare sul
pavimento.
La pensilina della stazione
era deserta. Nessuno scese dal convoglio
oltre a me. Sollevai il bavero del
cappotto per ripararmi dal freddo
pungente della
notte e m'incamminai verso il
sottopassaggio. La neve cadeva a fiocchi
larghi e aveva imbiancato l'intero
paesaggio. Soltanto le coppie delle rotaie,
sul cui rettifilo si muovevano i treni,
sembravano immuni dagli effetti
imbianchenti della neve.
Discesi i gradini del
sottopassaggio e m'incamminai verso
l'uscita della stazione ferroviaria.
L'androne in stile liberty dove si
affacciano gli sportelli per la
vendita dei biglietti era pressoché
deserto. Il tabellone elettronico
affisso a una parete, messo lì per
informare i viaggiatori sui movimenti
dei treni in arrivo e in partenza,
indicava le 2.09.
Il treno su cui avevo
viaggiato sino a Parma aveva raggiunto
la città ducale con un ritardo di circa
tre ore sull'ora prevista. Una
bufera di neve abbattutasi sulla linea
ferroviaria nel tratto appenninico fra
Firenze e Bologna aveva costretto i
treni a prolungate soste nella città
del giglio e in quella felsinea. Persa
la coincidenza con il rapido per La
Spezia sarei dovuto rimanere a
Parma sino alle sette di mattina, ora in
cui sarei salito sul treno che mi
avrebbe ricondotto a casa.
La sala d'aspetto di
seconda classe era occupata da
extracomunitari e barboni coricati sulle
cassapanche. Mi affacciai sulla porta
d'ingresso e mi ritirai da quel luogo
dopo avere annusato il tanfo che
proveniva dall'interno del locale. Mi
spostai all'esterno della stazione
ferroviaria e rimasi a
guardare la neve che scendeva dal cielo.
Tolsi dalla tasca del cappotto il
cellulare e fui tentato di comporre il
numero di casa.
Alla stazione di Bologna
avevo già provveduto ad avvertire
Ombretta del ritardo e non c'era nessuna
ragione perché la raggiungessi di nuovo.
Desistetti dal telefonarle certo che a
quell'ora stava già dormendo e l'avrei
svegliata.
L'area di sosta riservata
ai taxi era deserta. Una donna mulatta,
incartata in un pellicciotto tigrato, mi
venne incontro esibendo una corona di
denti bianchi più della neve.
- Ehi, bello, vuoi che te
lo succhi? Venti euro, ti va?
Non le diedi risposta,
rigettai l'invito e m'incamminai verso
l'altro lato della piazza dove mi era
parso d'intravedere l'insegna luminosa
di un bar. Sistemai la valigia 24 ore
sopra il capo per proteggermi dalla neve
che scendeva fitta e m'incamminai verso
il bar.
Le scarpe affondavano nel
sentiero di neve fresca. Attraversai la
strada e raggiunsi i portici del
grattacielo che si affacciava nella
piazza. Alcuni nordafricani sostavano
nella galleria commerciale con la
schiena accostata alle colonne.
Passandogli davanti mi fu subito chiaro
cosa stavano facendo lì.
Una densa nube di fumo
stazionava a mezz'aria e rendeva
l'ambiente del bar pressoché
irrespirabile. Quattro o cinque clienti
erano fermi davanti alle slot machine e
infilavano, a getto continuo, monete
nelle fessure dei marchingegni concepiti
per succhiare soldi ai giocatori. Mi
avvicinai al bancone e ordinai un caffè.
Il gestore del bar, un tipo attempato, camicia
bianca e gilè nero, mi servì la
bevanda calda sul marmo del bancone.
- Nottata da cani, eh? -
disse.
- Abbastanza.
- Nevica ancora fitto?
- Direi di sì, ho
l'impressione che non smetterà tanto
presto.
- Fra poco me ne andrò a
letto, ancora una decina di minuti e
chiudo il locale. Per fortuna non avrò
bisogno di mettermi per strada. Abito
nel palazzo.
- Di neve ce n'è in
abbondanza per la strada. Almeno venti
centimetri, a occhio e croce.
- Purtroppo non si vedono
in azione spartineve! Domani sarà un casino
muoversi in giro per la città in automobile,
specie se la temperatura dell'aria si
abbasserà.
- Io non sarò qui,
perlomeno lo spero, sarò in viaggio
verso La Spezia.
- Abita lì?
- Sono rimasto intrappolato
in stazione a causa del ritardo
accumulato dal treno su cui viaggiavo.
Ho perso la coincidenza per La Spezia e
ora sono in attesa del prossimo
convoglio.
- Le manca molto tempo alla
partenza?
- Quattro ore.
- Accidenti!
Stavo conversando col
barista quando la porta d'ingresso si
spalancò. Un getto d'aria fredda mi
colpì alle spalle. Scostai lo sguardo
dal mio interlocutore e girai il capo
nella direzione del nuovo arrivato.
L'uomo, un tipo poco più che ventenne
dai capelli arruffati e il fisico
atletico, bucò la densa cortina di fumo
che gravitava nel locale. Si avvicinò
al bancone e, dopo essersi liberato dei
guanti, cominciò a familiarizzare col
barista. Rimasi seduto sul seggiolino ad
ascoltare i loro discorsi, poi il gestore
del bar lo informò che ero rimasto
bloccato in stazione ed ero spezzino.
- Vengo spesso da quelle
parti d'estate. Ho un amico che è
proprietario di un appartamento a Lerici.
- Bella cittadina. Io abito
in un paese delle Cinqueterre. - dissi
senza specificare qual era la mia
residenza.
- Beato te che puoi goderti
sole e mare tutto l'anno. Noi invece
dobbiamo sorbirci freddo e nebbia.
Il ragazzo mi diede del tu
in maniera del tutto naturale nonostante
la differenza d'età. I suoi modi spicci
me lo fecero apparire subito simpatico.
Eravamo seduti uno accanto all'altro sul
trespolo di una sedia, intenti a
conversare, quando con finta
indifferenza lasciò cadere una mano sul
mio ginocchio e la ritirò subito dopo.
Non ci feci troppo caso, ma quando ripeté
il gesto più di una volta capii dove
voleva arrivare.
Da adolescente, prima
d'iniziare a fare del sesso con le
ragazze, mi ero tolto un po' di capricci
facendomi succhiare il cazzo da qualche
coetaneo. A quell'età consideravo
quella pratica abbastanza normale,
perlomeno questo succedeva nel gruppo di
amici che frequentavo. Poi avevo avuto
una vita sessuale pressoché normale e
mi ero sposato.
Dall'età di diciassette
anni non avevo più intrattenuto
rapporti sessuali con uomini e nemmeno
provavo attrazione per gli uomini
superdotati presenti nei film
pornografici che ogni tanto mi capitava
di vedere in compagnia di mia moglie. Mi
dava soddisfazione solamente la figa.
Solo quella mi eccitava, almeno di
questo ero convinto.
Il ripetuto contatto della
mano sul ginocchio mi procurò un certo
turbamento, ridestando quella parte del
mio passato che credevo fosse ormai
sopita. Il cazzo mi era diventato duro e
pulsava sotto i pantaloni.
Nascondevo l'erezione sotto
il cappotto, ma al giovane che mi stava
davanti dovevo apparirgli turbato, ne
ero certo, soprattutto perché la mia
voce si era fatta tremolante.
Non c'eravamo scambiati
nemmeno il nome. Eppure pendevo dalle
sue labbra mentre parlava. Non ascoltavo
le sue parole, osservavo le sue labbra
carnose come se stessero per adescarmi
ed ero in imbarazzo.
- E' ora di chiudere. -
disse il barista rivolgendosi alle
persone che occupavano i tavoli del bar.
- Andiamo anche noi? -
disse il giovane rivolgendosi a me.
- Sì, andiamo. -
confermai.
Scambiai un saluto con il
gestore del bar, pagai la consumazione
di entrambi, e seguii dappresso il
ragazzo verso la porta di uscita.
Una ventata di aria fredda
mi colse impreparato appena misi piede
in strada. Il mio compagno indossava un
giacca di montone che gli giungeva fino
a metà coscia. Seguitai a tenere il
cappotto sbottonato sul davanti sfidando
la bassa temperatura della notte.
Transitammo davanti alle
bocche affamate dei marocchini appostati
davanti al bar in cerca di clienti e
proseguimmo oltre. Prendemmo la via che
conduce verso il palazzo della Pilotta,
distante qualche centinaio di metri dal
piazzale della stazione ferroviaria.
Conoscevo la città e le sue strade
perché mia moglie, anni addietro, aveva
frequentato l'università a Parma e nei
fine settimana venivo spesso a farle
visita.
Avrei potuto fare ritorno
in stazione e attendere la partenza del
treno per La Spezia interrompendo la
passeggiata con il ragazzo. Invece non
lo feci e mi lasciai trascinare dagli
eventi. Sotto una fitta nevicata stavo
andando in giro per la città senza una
meta precisa, in compagnia di un uomo a
me del tutto estraneo che per l'età
avrebbe potuto essere mio figlio.
Sotto i portici della
Pilotta, al riparo dalla neve, il
giovane spiaccicò la sua proposta.
- Vuoi venire a scaldarti a
casa mia? Abito a pochi isolati da qui.
- No, ti ringrazio, ho il
treno che parte fra poche ore e non
voglio perderlo.
- Posso fare qualcosa per
te, allora? - disse guardandomi fisso
negli occhi.
- Non so...
Rimasi inerme quando
attraversò con la mano l'apertura del
cappotto che mantenevo sbottonato e
raggiunse la lampo dei miei pantaloni.
Mi spinse con le spalle al muro mentre
con la mano si occupò di levarmi il
cazzo fuori dalla patta. Lo fece faticando non
poco perché l'avevo duro da un pezzo,
il cazzo.
Azzardò a baciarmi sulla
bocca, ma scostai il capo di lato
lasciando che mi succhiasse il collo. La
sua mano incominciò a scorrere decisa
sul cazzo scappellandolo, poi cominciò
a masturbarmi.
Si mostrò abile nei
movimenti della mano, perlomeno più di
quanto lo è Ombretta, mia moglie. La
barba ispida strusciava sulla pelle del
mio viso provocandomi un fastidioso, ma
eccitante, prurito.
Non mi sentivo una vittima
e nemmeno un martire, godevo nell'essere
masturbato e non m'importava granché se
a farlo era un uomo. La situazione
equivoca in cui mi ero venuto a trovare
non mi era capitata per caso. Era una
scelta ponderata. Sapevo bene a cosa
sarei andato incontro accettando di
accompagnare lo sconosciuto per quel
tratto di strada. E poi non mi aveva
costretto a subire le sue attenzioni, le
avevo inconsciamente desiderate dal
momento in cui era apparso sulla porta
del bar.
Le sue labbra si accanirono
sul mio viso riempiendomi di baci. Lo
allontanai e gli spinsi le spalle verso
il basso facendolo inginocchiare ai miei
piedi. Avevo il cazzo duro che pulsava
libero nell'aria. Lo afferrò con
entrambe le mani e lo infilò nella
bocca. Le gambe presero a tremarmi per
la forte eccitazione. Puntellai la
schiena contro il muro per non cadere
per terra e lasciai che me lo
succhiasse.
Nascosti alla vista della
gente, sotto i portici del palazzo della
Pilotta, mi rassegnai a lasciargli fare
ciò che voleva, anche quando si mise a
leccarmi le palle mentre mi masturbava.
Ci sapeva fare con la bocca, non
ingoiava per intero il cazzo, pur agendo
di fretta avvolgeva la cappella con le
labbra e la succhiava. Si dannò a lungo
a roteare la lingua sulla cappella. Non
ci misi molto a raggiungere l'orgasmo.
Venni alla svelta come un
pivello alle prese con uno dei primi
coiti. Ingoiò lo sperma fino all'ultima
goccia, leccando ogni residua traccia
attorno alla cappella prima di staccarsi
da me.
Restammo ancora qualche
istante sotto i portici senza parlare.
Serrai la cerniera dei pantaloni dopo
avere sprangato il cazzo dentro le
mutande. Il ragazzo, che nel frattempo
si era rialzato, si pulì i pantaloni
macchiati di terriccio all'altezza delle
ginocchia dove fino a qualche istante
prima stava appoggiato per terra.
- Beh, è giunto il momento
di salutarci. - dissi.
- Sì, direi proprio di sì.
Il ragazzo non si spostò,
rimase lì, fermo, come chi è in attesa
di qualcosa, qualcosa che dovevo dargli.
Allora capii, tolsi dalla tasca il
portafoglio e gli allungai una banconota
da cinquanta euro. Lui la prese e mi
salutò con un cenno del capo.
Tornai in stazione ad
aspettare l'alba, ora in cui sarebbe
partito il primo treno per La Spezia. La
neve aveva cessato di cadere quando il
capostazione diede il segnale di
partenza al convoglio ferroviario su cui
avevo preso posto. Finalmente sarei
tornato a casa, da Ombretta.
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