|
FRATELLI
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico
adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il
contenuto possa offenderti sei
invitato a uscire.
Mi
manchi. Mi mancano i tuoi baci, i
gemiti, le carezze. Mi manchi al mattino, appena sveglia,
quando giro lo sguardo
verso il guanciale accanto al mio e tu
non ci sei. Senza di te valgo poco, anzi
sono meno di niente.
La luce nella camera di
degenza che ti ospita è tenuta
soffusa per non recarti disturbo.
Accavallo le gambe e resto a guardati.
La cannula tracheale che ti permette di
respirare è intasata di muco. Un
rantolo fastidioso ti esce dalla trachea
e mi mette in apprensione. Allarmata
premo il pulsante che aziona la suoneria
collegata alla guardiola delle
infermiere. Trascorre soltanto una
decina di secondi e una di loro si
precipita nella camera.
- Ha bisogno? - esclama
l'infermiera che è comparsa sulla
porta.
- Ho l'impressione che mio
fratello respiri male.
- Non si preoccupi è solo
un po' di muco. Provvedo a rimuoverlo.
L'infermiera, molto
giovane, non tradisce incertezze. Si
avvicina al carrello delle medicazioni,
apre un cesto metallico, ed estrae una
custodia in plastica trasparente che
contiene una sonda di gomma. Infila i
guanti in lattice, apre l'involucro, e
sfila il catetere. Lo connette alla
pompa d'aspirazione e preme
l'interruttore dell'apparecchio, poi
introduce la sonda nella trachea di mio
fratello. In pochi secondi la cannula
tracheale è liberata dal muco che
l'ostruiva.
- Ha bisogno d'altro?
- No, grazie.
Terminato il compito la
ragazza si dirige verso la porta. Sta
per andarsene, ma ha un ripensamento. Si
gira nella mia direzione e inizia a
parlare.
- In casi come questo ci
vuole molta pazienza. Il coma non è una
patologia irreversibile. Può durare
mesi, settimane, oppure solo pochi
giorni. L'importante è non perdere la
speranza che lo stato comatoso
regredisca al più presto, e nei limiti del possibile
senza
provocare danni irreversibili al
cervello del paziente.
A fatica sorrido
ricambiando a modo mio l'interessamento
mostrato nei miei confronti
dall'infermiera. Appena è uscita dalla
stanza ritorno a sedermi accanto al
letto.
Renzo ha lasciato la camera
di rianimazione da poco più di una
settimana. Da quando è stato trasferito
nel reparto di terapia post-intensiva
non l'ho mai abbandonato un solo
istante. L'ho assistito giorno e notte.
La sua vita, dopo
l'incidente automobilistico di cui è
rimasto vittima, sembrava appesa a un
filo. Il trasferimento in terapia
post-intensiva lasciava presagire un
rapido miglioramento, cosa che invece
tarda ad arrivare.
"Gli parli delle cose
che più gli sono care" mi ha
suggerito il primario del Reparto di
Rianimazione. "Potrebbero
facilitargli il risveglio".
Ho iniziato a parlargli
della sua squadra di calcio e anche di
ciclismo; lo sport che più di ogni
altro predilige. Prima dell'incidente
era solito effettuare lunghe passeggiate
in bicicletta spostandosi sulle colline
che circondano la città.
Da quando il primario mi ha
sollecitato a parlargli ho trascorso
intere giornate a leggergli, ad alta
voce, brani di articoli sportivi, ma
senza ottenere nessun apparente
risultato. Oggi per la prima volta ho
iniziato a parlargli di noi.
Le parole mi escono a
fatica dalle labbra. Ho paura che
qualcun altro, oltre a lui, possa
ascoltarle. Mi riesce difficile parlare
del legame che ci unisce e confessargli,
ancora una volta, che lui è la cosa più
importante della mia vita.
Dalla serranda della
finestra filtrano i raggi del sole. Una
striscia di luce illumina il volto di
Renzo. Mi alzo dalla sedia e mi avvicino
alla finestra. Svolgo la corda
dell'avvolgibile in modo che la luce si
attenui all'interno della stanza.
- Da bambino ti piaceva la
luce. - attacco a parlare. - Spesso, al
crepuscolo, ti sorprendevo a guardare il
sole che declinava oltre le colline
dietro la nostra casa. A volte stavo lì,
accanto a te, seduta sul prato,
immobile, senza parlare, a chiedermi
cosa ci trovavi di così affascinante in
quella luce così accecante. L'ho
scoperto qualche anno più tardi, dopo
che mi hai resa partecipe delle tue
paure. Ricordi il vetro affumicato che
utilizzavi in quelle occasioni? Io sì.
Ricordo come fosse ieri la
volta in cui, cercando d'imitarti,
rimasi a osservare a lungo il sole senza
proteggermi gli occhi con del vetro
affumicato. Mi procurai un'abrasione
alla retina e rimasi ricoverata in
ospedale per qualche giorno, ricordi?
Ne avevamo parlato una
infinità di volte. Quante botte si era
preso da papà quella volta lì, ciò
non gli aveva impedito di tornare a
osservare il tramonto, anche se lo
faceva di nascosto. Mi tornano alla
mente le immagini della nostra casa di
campagna in cima alla collina. E' lì
che abbiamo trascorso gran parte della
nostra infanzia. Penso a nostro padre,
al lavoro nei campi, a come già da
piccoli ci aveva coinvolti nella
gestione dell'azienda agricola. Lo aveva
fatto attribuendo a ciascun membro della
famiglia un compito preciso, anche se tu
al lavoro nei campi e a quello della
stalla preferivi la meccanica e
l'elettronica.
- Ricordi la volta in cui
mi rifiutai di entrare nel bigoncio
insieme a te per fare il bagno
domenicale? Io lo ricordo bene. Avevo
otto anni e tu ne avevi dieci. Nessuna
delle mie compagne di scuola aveva
l'abitudine di fare il bagno insieme ai
fratelli. Con un po' di civetteria
pensai che era giunto il momento
d'interrompere la nostra promiscuità.
In quelle occasioni ti divertivi a
mostrarmi il pisello, ma non solo
quello, poiché lontano dallo sguardo di
mamma più di una volta mi avevi
spruzzato addosso la pipì, ricordi?
Un giorno ti ho visto
mentre ti masturbavi di nascosto vicino
alla legnaia. Era l'ora del tramonto, te
ne stavi sdraiato nell'erba, con la mano
che scorreva sul pisello e lo menavi...
lo menavi. Nascosta dietro una catasta
di legna ero rimasta a osservarti. Ai
miei occhi innocenti quello che stavi
facendo pareva un massaggio e nulla più.
Non rimasi molto tempo a guardarti, me
ne andai poco dopo, senza disturbarti,
anche se in quell'occasione fui sorpresa
dalla dimensione del tuo pisello, assai
diverso da quello che avevo visto nelle
precedenti occasioni.
Ricordi il giorno in cui
per la prima volta ebbi le mestruazioni?
Accade mentre ci accapigliavamo sul
prato dietro casa. All'improvviso mi
trovai le cosce imbrattate di sangue.
"Deficiente! Cretino!" urlai,
accusandoti di avermi causato
quell'emorragia. Corsi piangendo da
mamma spaventata dal sangue che mi
usciva copioso dalla vagina. Fu lei a
spiegarmi, con parole sue, cosa aveva
provocato quella emorragia. Da quel
giorno evitai accuratamente di fare la
lotta con te. Avevo undici anni, ero
diventata donna, e iniziai a comportarmi
come tale, trascurando i giochi
nell'aia.
Le parole che all'inizio
parevano uscirmi a fatica dalle labbra
adesso si accavallano una sull'altra con
molta naturalezza. Mi accaloro nel
raccontare aneddoti della nostra vita.
Raramente prima d'oggi ho avuto
occasione di farlo. Parlarne è liberare
una parte di me stessa che tengo
nascosta in qualche angolo remoto della
mente.
- Spesso, la notte, mi
accorgevo se ti masturbavi sotto le
coperte. Se all'inizio la cosa mi aveva
disturbata, col trascorrere del tempo
provai piacere dal tuo trastullarti. Nel
buio della stanza aspettavo con ansia il
momento in cui avresti sborrato.
Riuscivo a percepirlo dal sibilo del tuo
respiro che in quei brevi attimi
diventava affannoso, ma ancora di più
dal rumore della tua mano che,
impregnata di seme, cessava di sfregare
le lenzuola.
Mi sono sempre chiesta dove
la mettevi tutta quella roba lì: un
giorno, forse, me lo dirai. Trovavo
eccitanti e piacevoli gli attimi di
silenzio che seguivano la sborrata. Mi
perdevo nel fantasticare sul tuo cazzo
che in quei momenti immaginavo dovesse
essere enorme. E' in una di quelle notti
che iniziai a sgrillettarmi la passera
realizzando il primo di una lunga serie
di ditalini. Provavo piacere
nell'accarezzarmi sapendo che anche tu,
in quel medesimo momento, ti masturbavi.
Preso com'eri dal tuo massaggio non ti
sei mai accorto che t'imitavo. Oppure sì?
Ormai ho superato
l'imbarazzo iniziale. Parlo senza
interruzioni. Mi tornano alla mente una
infinità di aneddoti che ci hanno visti
protagonisti durante quelle notti e
glieli racconto.
- Ricordi le parole che
mamma era solita pronunciare prima di
mandarci a letto?
"Occorre andare a
dormire presto per sognare più a
lungo." diceva, e non aveva tutti i
torti perché spesso sognavo di te.
- "Non bisogna mai
tornare dove si è stati felici".
Ricordi invece la frase che spesso
pronunciava papà? Un giorno torneremo
su quelle colline dove abbiamo trascorso
gran parte della nostra giovinezza. Ne
sono sicura, ma senza avere paura, perché
felici lo siamo sempre stati noi due.
Mentre sussurro queste
parole le lacrime mi rigano le guance.
Sto asciugandomi gli occhi quando una
infermiera si affaccia sulla porta. Si
avvicina al letto e osserva la
fleboclisi. Tutt'a un tratto, stizzita,
si rivolge a me.
- La fleboclisi è vuota,
non se n'è accorta? La prossima volta,
prima che il liquido sia sceso del tutto
nella boccetta, suoni il campanello.
Altrimenti il sangue si coagula
nell'ago. Mi raccomando!
L'infermiera, un tipo
gracile, con qualche anno sul groppone,
sostituisce la boccetta vuota con
un'altra piena. Regola la fuoriuscita
del liquido dal deflussore, e cronometra
l'intervallo fra una goccia e l'altra
con l'orologio che tiene al polso.
- Sessanta gocce al minuto!
E' la velocità di somministrazione
ideale. Se dovesse verificarsi una
accelerazione o un rallentamento del
flusso non esiti a chiamarmi.
Occupata com'ero nel mio
soliloquio, non mi sono accorta che il
liquido della flebo stava per finire.
- Mi sono distratta. Deve
scusarmi non accadrà più.
- Non si preoccupi. Pensi
piuttosto a riposarsi, non vorrà
ammalarsi anche lei. Vada a casa.
- Come potrei lasciare mio
fratello qui da solo. Sono l'unica sua
compagnia.
L'infermiera accarezza il
volto di Renzo e si allontana. Lascio
che esca dalla stanza e mi avvicino di
nuovo al letto.
- Da quando sei ricoverato
in ospedale una infinità di donne si
sono prese cura di te. Forse ti sembrerà
strano ma ne sono gelosa. Vorrei essere
io a curarti come ho sempre fatto in
tutti questi anni. Se mamma e papà
fossero vivi sarebbero inorriditi nello
scoprire il tipo di legame che ci tiene
uniti. Di sicuro non avrebbero
giustificato il nostro amore. Ricordi i
primi baci che ci siamo scambiati?
Volevi imparare a baciare, così mi hai
chiesto se potevi farlo con me. Avevi
diciotto anni e io sedici. Da un po' di
tempo avevo iniziato a pomiciare con i
miei coetanei, tu invece, timido
com'eri, non avevi alcuna esperienza ed
eri ancora vergine. "Sei
matto" ti risposi "Siamo
fratello e sorella, non possiamo fare
certe cose".
Sei riuscito a convincermi
dicendo che la cosa era normale, tanti
tuoi amici lo avevano fatto con le
proprie sorelle. Per molto tempo abbiamo
continuato a scambiarci baci di
nascosto, lontano dagli sguardi
indiscreti di mamma e papà. Se
all'inizio la cosa mi aveva solo
divertito, col trascorrere del tempo ho
cominciato a godere di quei baci fino a
preferirli a quelli dei miei coetanei.
Anche tu ne eri rimasto turbato, forse
più di me. Col trascorrere del tempo
non ti sei accontentato soltanto di
baciarmi, ti sei fatto più
intraprendente e hai cominciato a
toccarmi le tette. Ti ho lasciato fare,
senza opporre alcuna resistenza, fino a quando,
un giorno, le tue mani sono scivolate
fra le mie cosce, insinuandosi fra le
mutandine fino a sfiorare le labbra
della passera.
Ho avuto paura e mi sono
divincolata, poi sono scappata in
camera, ricordi? Si, certo che lo
rammenti, perché dopo quell'avvenimento
sei fuggito da casa. Avevi da poco
superato l'esame di maturità e con in tasca
il
diploma di perito meccanico ti
sei trasferito a Milano. Il giorno in
cui sei partito non sono venuta a
salutarti. Dalla finestra della mia
camera, nascosta dietro la tenda, sono
rimasta a guardarti mentre t'incamminavi
verso la strada provinciale per prendere
la corriera diretta a Parma. Nelle mani
stringevi due valige nuove fiammanti.
Mamma le aveva acquistate al mercatino
domenicale apposta per te. Dopo di
allora non ti ho rivisto per molto
tempo.
Le mie parole restano
sospese. Sono commossa e sto per
piangere. Accarezzo le dita della sua
mano che sporgono sul copriletto. Sono
mani fredde, inermi. Le strofino con il
palmo della mano nella speranza di
trasmettergli un poco di calore.
- Hai fatto ritorno a casa
soltanto in occasione del Natale, cinque
mesi dopo la tua partenza. Per molti
anni le nostre vite hanno percorso
sentieri diversi. Nelle rare occasioni
in cui facevi ritorno a casa lo facevi
comportandoti da fratello maggiore
portandomi ogni volta un regalo. Vuoi
sapere come ho perduto la verginità? E'
successo con Franco, te lo ricordi? Ma sì,
dai, sto parlando di quel ragazzo che
abitava a Felino, quello con cui ero
solita prendere la corriera ogni mattina
per andare a scuola. Il suo viso era
pieno di brufoli e non era per niente
carino. Dopo il diploma aveva iniziato a
lavorare nell'azienda del padre. Io
invece mi ero iscritta alla facoltà di
lettere dell'università di Parma.
Ogni sabato sera avevamo
l'abitudine di ritrovarci in compagnia
di comuni amici per recarci a ballare in
qualche discoteca. Una sera, mentre mi
stava riaccompagnando a casa con la sua
Fiat 500, ha fermato la vettura in un
viottolo di campagna. Siamo rimasti a
chiacchierare per un po' di tempo,
dopodiché abbiamo cominciato a
pomiciare. Quella sera non mi sono
limitata a masturbarlo, come ero solita
fare, invece mi sono spinta oltre.
Ancora oggi non ricordo bene come sia
riuscito a penetrarmi. Lo spazio
all'interno dell'auto era così esiguo
da rendere difficoltoso qualsiasi
movimento, ma in qualche modo riuscì a
deflorarmi. E' così che ho perduto la
verginità, forse ti sembrerà poco
romantico, ma di lui non me ne importava
granché. Avevo perso te e nessun altro
uomo avrebbe potuto sostituirti nel mio
cuore.
Intingo una garza nel
bicchiere d'acqua appoggiato sul
comodino e inumidisco le sue labbra
secche. I peli della barba sono ispidi.
Domani dovrò raderli come ho sempre
fatto in questi giorni servendomi del
rasoio elettrico che ho portato da casa.
Osservo il suo viso scarno e gli
accarezzo la fronte. I capelli
leggermente brizzolati sono composti e
lucidi. Li ho pettinati stamani e hanno
mantenuto la piega. Nel corso degli anni
li ho visti cambiare di colore senza
accorgermene, soltanto ora mi perdo a
guardarli con maggiore attenzione.
- Non siamo più giovani,
hai compiuto quarantacinque anni, io ne
ho quarantatrè. Per la prima volta dopo
tanto tempo sto a chiedermi se le
persone che siamo soliti frequentare
sono a conoscenza del legame che ci
unisce, chissà quanti pettegolezzi e
maldicenze avranno fatto sul nostro
conto. E' strana la vita, se mamma e papà
non fossero periti in quel tragico
incidente probabilmente avremmo
continuato a incontrarci solo in
occasione delle festività natalizie. La
loro morte ha segnato la nostra vita più
di quanto avrebbero potuto immaginare.
Ricordi come piangevo la sera del
funerale mentre perlustravamo la stalla?
Camminavi dinanzi a me, lungo l'arcata
centrale, dilungandoti nel descrivere
ogni attrezzo agricolo che giaceva
abbandonato ai lati dell'acciottolato
che stavamo calpestando. La tua voce
tradiva commozione. Parlavi come se non
li avessi mai utilizzati quegli
attrezzi, eppure sapevi che già da
bambina collaboravo con papà e mamma
nella gestione dell'azienda agricola.
Ascoltavo le tue parole e
piangevo. Ti sei girato verso di me e mi
hai accolto fra le braccia. Le tue mani
hanno cominciato ad accarezzarmi il
volto, le labbra, i capelli. Le pupille
dei nostri occhi, che per tanto tempo
non si erano incrociate, riflettevano
l'immagine dei nostri volti. Hai
avvicinato le dita alle mie guance con
l'intenzione di rimuovere le lacrime che
scendevano copiose dai miei occhi, ma il
flusso era così abbondante che nessuna
barriera avrebbe potuto arginare la
fuoriuscita di liquido. Hai appoggiato
le labbra sulle mie e mi hai baciata.
Erano morbide, calde, ardenti di
passione. La tua lingua mi è penetrata
nella bocca e allora ho smesso di
piangere, mentre il cuore mi pulsava a
dismisura. Preso dalla foga mi hai
denudata della camicetta. Hai liberato
le spalline del reggiseno e lo hai fatto
scendere lungo le mie braccia.
Ancora una volta ti ho
lasciato fare senza opporre resistenza,
anche quando il reggiseno è scivolato
sul mio ventre. I miei seni erano gonfi,
sodi e le tue labbra s'incollarono alle
mammelle. Hai cominciato a succhiarle
come un bimbo si attacca al seno
materno. Godevo nel sentire i capezzoli
imprigionati fra le tue labbra. Ti
desideravo sopra ogni cosa. Siamo
rimasti abbracciati l'uno all'altra, in
piedi, turbati dai nostri sensi e dalle
paure che ci portavamo dentro da troppo
tempo. Ti sei liberato del maglione e
della camicia scoprendo il torace. Le
unghie delle mie dita sono penetrate
nella carne dei tuoi pettorali fino a
raggiungere le areole dei capezzoli che
ho stretto fra le dita fino a farti
urlare per il dolore.
Mi hai supplicato di
smetterla, ricordi? Io, invece, ho
seguitato ad affondarle in profondità
nella tua pelle per punirti della
prolungata lontananza. Le nostre labbra
hanno seguitato a cercarsi, senza sosta.
La tua lingua, morbida e soffice, ha
esplorato la mia bocca penetrandola
ripetutamente. Mi hai scaraventata per
terra, sulla lettiera di paglia, e ti
sei adagiato sopra il mio corpo. Le tue
mani hanno afferrato le mie braccia e le
hanno incrociate sopra il mio capo
tenendole ben ferme. Non ho opposto
resistenza, anche se avrei potuto farlo.
Ti desideravo, come tu desideravi me, da
troppo tempo. Ti sei liberato della mia
gonna strappandomi via anche le
mutandine, poi dopo avermi divaricato le
cosce mi hai penetrata, senza alcuna
precauzione.
Avevo la vagina fradicia
d'umore e ricevere il tuo cazzo fu una liberazione. Mi hai scopata come si
cavalca una puttana, senza dirmi una
sola parola affettuosa. In quella
occasione non ho raggiunto l'orgasmo, tu
sei venuto prima che anch'io ci riuscissi
accartocciandoti su di me. Siamo rimasti
abbracciati l'uno all'altra per alcuni
istanti, esausti, poi ti sei girato e
hai appoggiato le spalle sulla lettiera
di paglia. Abbiamo indugiato a lungo a
guardare le volte del soffitto, in
silenzio, poi hai interrotto la quiete
di quei momenti con una frase: "Ti
amo Paola. Ti amo da sempre, ma più
dell'amore di un fratello. Non mi è bastato fuggire
da questa casa per toglierti dalla
mente. Ogni donna che ho posseduto aveva
le tue sembianze, il tuo volto".
Ricordi quelle parole? Le
ho impresse nella mente e non le ho mai
dimenticate. "Anch'io ti amo
Renzo" ti ho risposto. Ci siamo
uniti in un tenero abbraccio e da allora
non ci siamo più lasciati e nemmeno
credo che ci lasceremo mai, perché se
mi lasci, morirò con te.
Mentre bisbiglio queste
parole le lacrime rigano ancora una
volta il mio volto. Afferro un lembo del
lenzuolo e asciugo le guance. Lascio
cadere il bordo bianco e lo sguardo mi
si posa sulla leggera protuberanza che
sta nel bel mezzo del copriletto. Con
circospezione sollevo il lenzuolo fino a
scoprire l'addome di Renzo. Il cazzo,
nel cui meato urinario c'è infilato un
catetere, è gonfio e grosso. Allungo la
mano e mi assicuro della sua
consistenza: è duro!
Il mio cuore prende a
battere a dismisura. Le luci della sera
oscurano la stanza sempre più. Accendo
la lampada notturna che sta appesa sulla
parete del letto e mi preparo a
trascorrere la notte in ospedale.
Avvolgo col lenzuolo il corpo di Renzo e
mi siedo sulla sedia.
- Ricordi la notte in
cui...
|
|
|