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NIENTE
PER BOCCA
(Duemilaquarantadue)
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico
adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il
contenuto possa offenderti sei
invitato a uscire.
E rika
camminava, attenta
a non incespicare, sul
selciato accidentato di pietre e sassi
che dall'Ospedale Maggiore conduceva a
Porta Santa Croce. Ai piedi calzava un paio
di scarpe da uomo, prive di lacci, che giorni addietro aveva
sottratto a un vecchio, in fin di vita,
affidato alle sue cure d'infermiera. Un
tempo era solita percorrere quel tratto di strada in sella alla
bicicletta, ma dopo che i mezzi di
locomozione erano pressoché scomparsi
non le erano rimaste che le proprie
gambe per spostarsi da un quartiere
all'altro della città.
Le nubi tossiche sollevate
dall'esplosione delle testate nucleari
durante la guerra dei Dieci Giorni
avevano provocato un immane disastro
ambientale. Il clima sul pianeta era
mutato in maniera radicale. Milioni di
persone erano decedute per gli effetti
devastanti delle radiazioni atomiche. Le
ceneri radioattive avevano prodotto
pesanti mutazioni genetiche
nell'ambiente compromettendo, di fatto,
la vita dell'uomo sulla terra.
La primavera, nonostante il
colore del cielo, somigliante
all’arancione, era sopraggiunta
puntuale come ogni anno. A Erika sarebbe
piaciuto annusare ancora una volta il
profumo dei tigli in fiore. Un tempo le
strade della città erano occupate da
interi filari posti ai lati delle
carreggiate. Ma la crisi energetica
aveva indotto la popolazione ad
abbattere le piante e impiegare il
legname per riscaldare le abitazioni.
A seguito degli effetti
delle ceneri radioattive la popolazione
era andata sempre più riducendosi.
Uomini e donne sopravvivevano nella più
assoluta povertà. Ecclesiastici e
nobiluomini, appoggiati da fedeli
servitori, occupavano il territorio
urbano attorno alla cattedrale,
trincerati dietro i bastioni che avevano
fatto erigere a difesa del quartiere da
cui uscivano raramente. Le mura, alte più
di tre metri, servivano a proteggerli
dalla accozzaglia di malfattori che
nelle ore notturne erano padroni
incontrastati della città.
Erika aveva da poco
compiuto sessant'anni e per sopravvivere
prestava la sua opera d'infermiera nelle
corsie dell'Ospedale Maggiore o di
quanto n'era rimasto. Le condizioni del
nosocomio erano fatiscenti. Dei
padiglioni che un tempo costituivano
l'essenza dell'ospedale soltanto pochi
edifici erano rimasti in piedi. Nelle camere di
degenza, sudice e maleodoranti,
raramente c'era posto sufficiente per chi stava
male. Due o più persone occupavano il
medesimo letto. Uomini e donne giacevano
ammassati uno sull'altra, senza
precauzioni per le malattie infettive di
cui erano portatori, con la conseguenza
di contagiarsi a vicenda.
L'Ospedale era diventato un
lazzaretto dove i poveri andavano lì a
morire, mentre chi era in grado di
comperarsi l'assistenza rimaneva a
curarsi a casa. La maggioranza delle
persone non erano assistite, ma
abbandonate al loro destino.
Erika lavorava nel
padiglione che ospitava i reparti di
ginecologia e maternità: il più
importante dell'Ospedale Maggiore,
l'unico fornito di gruppo elettrogeno,
alimentato a nafta, che provvedeva a
erogare energia elettrica per poche ore
al giorno, e soltanto in occasione dei
parti.
Le mutazioni genetiche,
sopravvenute dopo il passaggio delle
nubi tossiche, avevano indotto i medici
a effettuare i parti eseguendo
esclusivamente il taglio cesareo, questo
per evitare che il feto venisse a
contatto con la mucosa uterina che
durante il periodo di gestazione
secerneva un liquido, altamente tossico,
in grado recare danni al nascituro.
In una società allo sbando
come era quella post atomica non c'era
peggior cosa che essere più poveri dei
poveri. Erika lo sapeva bene, per questo
si arrabattava nell'arraffare ogni sorta
di oggetto che le capitava sotto mano.
Approfittava dei momenti in cui le
pazienti erano addormentate per
depredarle degli oggetti di loro
proprietà, beni che provvedeva a
barattare ai mercati generali, vicino al
Ponte di Mezzo.
Dopo avere trascorso
l'intera giornata fra le mura
dell’ospedale, impegnata ad accudire
corpi malati, solo nel tardo pomeriggio
aveva preso la strada che l'avrebbe
condotta verso casa. Uscendo dalle mura
dell'ospedale si era incamminata verso
Strada Maestra, una delle poche strade
rimaste pavimentate da lastroni di
pietra, rara testimonianza di quella che
un tempo era la Via Emilia.
L'odore dell'aria era
stomachevole per colpa del mancato
funzionamento delle fogne ormai in
disuso, ma soprattutto per la cattiva
abitudine degli abitanti dell'Oltretorrente,
il quartiere più popoloso della città,
di svuotare dalle finestre, nella
pubblica strada, i vasi da notte e ogni
tipo di rifiuto.
Una infinità di mendicanti
popolava i marciapiedi. C'era persino
chi traeva profitto dall'altrui povertà
affittando bambini scianchi e malconci
dalle rispettive famiglie per attirare
la pietà dei passanti e indurli
all'elemosina.
Erika affrettò il passo in
direzione del mercato senza commuoversi
dinanzi alle mani, assai numerose, che
si protendevano nella sua direzione e
imploravano la carità. Quando giunse in
prossimità del piazzale antistante la
chiesa della S.S. Annunziata, ubicato a poca
distanza dal Ponte di Mezzo, la folla di
persone si era fatta più consistente. A
ridosso delle mura dell'antica chiesa
dei frati francescani trovavano posto
numerose bancarelle di mercanti. Ogni
genere di mercanzia era esposta sui
bancali, dai preziosi fiammiferi ai
televisori ormai inservibili, ma
soprattutto era commercializzato del cibo:
l'elemento più
importante per la sopravvivenza delle
persone.
La maggioranza della gente
era così povera che a stento riusciva a
sostenere la spesa per una pagnotta di
pane. Gli avanzi della tavola, quelli
che un tempo venivano distribuiti agli
animali domestici, erano venduti al
mercato. Persino le briciole di pane
erano messe in vendita a 1/4 del valore
di una pagnotta di pane.
Erika si avvicinò alla
bancarella di un venditore di pane e si
perse a guardare le pagnotte esposte sul
banco. Tracolla reggeva una sporta dove
custodiva il bottino della giornata di
lavoro trascorsa in ospedale. Prima di
effettuare un qualsiasi acquisto osservò
attentamente la mercanzia esposta. Le
pagnotte erano di varie dimensioni e
diversa qualità, ma
soprattutto d'aspetto e colore diverso,
secondo il tipo di mistura di crusca e
farina grossa d'avena con cui era stato
impastato il pane. Erika afferrò una
pagnotta e la soppesò con la mano, come
a volerne valutare il peso.
- Quanto mi verrebbe a
costare?
L'ambulante, in piedi
dietro la bancarella, prese la stadèra,
infilò il pollice nel gancio ad anello
e appoggiò la pagnotta di pane sul
piatto di rame. Sull'asta metallica, col
contrappeso in perfetto equilibrio, si
soffermò a guardare le incisioni
dentate con indicati i grammi.
- Il peso è di seicento
grammi. Ti costerà un soldo e venti
centesimi.
L'ambulante le porse la
pagnotta e accompagnò il gesto con un
sorriso a tre denti: tanti gliene erano
rimasti nella bocca, poi si lasciò
sfuggire una frase di un rituale ormai
consolidato.
- Altrimenti ci possiamo
mettere d'accordo in altro modo. Ah! ah!
ah! Sai bene quanto mi piacciono le
donne del tuo stampo.
Erika sorrise, afferrò la
pagnotta di pane e la infilò nella
sporta. Liquidata la somma convenuta si
allontanò dal banco. Poco più in là,
nella Piazzetta della Rocchetta,
prospiciente la salita del Ponte di
Mezzo, un vasto numero di banchetti,
gestiti da ambulanti, circondava il
monumento a Filippo Corridoni, eroe
della prima guerra mondiale, sistemato
nel centro della piazza. Alcuni degli
ambulanti vendevano avanzi di cibo cotti
provenienti dalle tavole dei signori.
Molti di quei pezzi di carne erano
ammuffiti e dall'aspetto stomachevole,
ma questo non impediva alla povera gente
di mangiarli non avendo altre
alternative di sostentamento.
Quando giunse in prossimità
del banco di Quasimodo l'intenso profumo
di zuppa di cipolle le accentuò
l'appetito mai sopito. Si avvicinò alla
pentola in primo piano sul bancone e
osservò attentamente la minestra. Si
sporse in avanti e annusò con avidità
i vapori che emanava la zuppa di
cipolle.
- Il profumo è eccellente.
Penso che dovrai servirmene una bella
porzione. – disse rivolgendosi a
Quasimodo.
- Preferisci inzuppare il
pane direttamente nella pentola, oppure
ne vuoi una ciotola? - sbottò
l'ambulante che aveva riconosciuto
Erika.
- Preferisco una ciotola.
Mi raccomando. Che la zuppa sia densa e
non brodaglia!
Erika tolse dalla sacca una
ciotola di terracotta e la porse
all'ambulante. L’uomo intinse il
mestolo nella pentola. Rimescolò il
liquido in modo da sollevare la parte
densa che gravitava sul fondo della
pentola, scodellò la zuppa nella
ciotola e si premurò di restituirla a
Erika.
- Ottanta centesimi. -
disse l'ambulante, trattenendo la tazza
a mezz'aria in attesa che Erika
sborsasse la cifra pattuita. Soltanto
dopo che la donna ebbe posato le monete
pattuite sul tavolo acconsentì a
restituirle la ciotola.
Erika strinse le dita
attorno alla tazza e assaporò il calore
che trasudava dalla parete in
terracotta. Si mise a sedere sulla panca
e tolse dalla sacca la pagnotta di pane
che poc'anzi aveva acquistato. Prima
d'intingere il pane nella zuppa si
soffermò a guardare i volti dei
giovinastri seduti sul muricciolo che
faceva da argine al torrente a poca
distanza da lei. Le loro facce erano
smunte e avvizzite. Il colorito pallido
della pelle, senza forza nè nerbo, era
identico a quello delle piante che
crescono nell'ombra. Tagliò alcune
fette di pane. Ne afferrò una fetta e
la intinse nella zuppa. Lasciò che la
minestra, piuttosto densa e ricca di
sapori, impregnasse la mollica, dopodiché
si cibò del tozzo di pane con avidità.
I ragazzi rimasero a
osservare i movimenti della bocca di
Erika che, imperturbabile, andò avanti
a saziarsi di cibo sotto il loro
sguardo. Anzi, sembrava godere
dell'interesse che stava suscitando su
di loro e faceva di tutto per attirarne
l'attenzione. Quando la ciotola fu vuota
fece scorrere una fetta di pane sulla
superficie interna di terracotta e
asportò le tracce di crema di cipolle
depositate intorno alla parete.
Terminato il pasto sollevò
un gluteo ed emise un peto di tale
intensità che a quel fragore i ragazzi
ribatterono con un lungo applauso
divertito. Non paga emise un rutto e
liberò dalla bocca i gas di cui si era
riempita lo stomaco. Prima di alzarsi
osservò per l'ennesima volta i volti
dei ragazzi di strada, indecisa nella
scelta che da lì a poco sarebbe andata
a compiere. Ripose nella sacca gli
avanzi della pagnotta che giacevano sul
tavolo e con la ciotola stretta nella
mano si avvicinò al muretto dove i
ragazzi erano seduti uno accanto
all'altro.
Da quel punto di
osservazione poteva vedere lo scorrere
delle acque del torrente dal colore
simile al rame che scendevano verso la
pianura. Alcune lavandaie affollavano la
riva e immergevano i capi di vestiario
nelle torbide acque.
- Tu!
Con tono imperativo si
rivolse a uno dei ragazzi seduti sul
muretto, più interessato a togliersi le
caccole dal naso piuttosto che occuparsi
di lei.
- Tieni, prendi la ciotola
e vai a lavarla nel fiume. Ti aspetto
qui.
Sorpreso dalla chiamata e
sollecitato dalle grida dei compagni che
lo incoraggiavano ad afferrare la
ciotola, il giovane scese dal muretto,
afferrò la tazza e si precipitò lungo
il sentiero che conduceva al torrente,
conscio che al ritorno l'attendeva la
riconoscenza della donna. Quando
ricomparve, dopo avere provveduto a
lavare la ciotola, Erika era lì ad
aspettarlo.
Insieme presero la strada
che conduceva all'abitazione della donna
nel cuore dell'Oltretorrente.
- Ho una sorpresa per te. -
disse rivolgendosi al ragazzo. - Come
ricompensa berremo insieme una bottiglia
di vino!
- Ehi, ma dove l'hai presa?
- Ho fatto un baratto,
semplice no!
- Tu in cambio cosa gli hai
dato di così prezioso?
- La fica! Che altro?
- Dai, non fare la scema.
Cosa gli hai dato?
- Ho promesso ai parenti di
una paziente che le avrei trovato un
letto singolo. Loro però non immaginano
che difficilmente riuscirà a
sopravvivere fino a domani mattina.
- Cazzo, ma tu sei peggio
del diavolo.
- No, carino, sono solo più
troia delle altre donne.
Mentre pronunciava queste
parole raggiunsero Borgo Santo Spirito.
Lasciarono alla loro destra il Parco
Ducale, da tempo privo di alberi e
adibito a cimitero cittadino, e
proseguirono oltre.
L'odore emanato dalle fosse
comuni, lasciate aperte dai necrofori
per coprirle con terriccio appena
sarebbero state piene di cadaveri, era
nauseante e difficile da sopportare.
Erika e il ragazzo avvicinarono un pezzo di
stoffa dinanzi al naso per ripararsi
dall'odore acre dei cadaveri in
putrefazione e affrettarono il passo.
L'alloggio di Erika si
trovava a pochi passi dal cimitero. Il
fabbricato, una ex caserma parzialmente
in rovina, un tempo adibito a biblioteca
comunale, era provvisto di mura
piuttosto spesse.
In un angolo della ex
piazza d'armi, poco distante dalle
autorimesse, trovava posto un pozzo
artesiano. A causa della forte pressione
a cui l'acqua era sottoposta nel
sottosuolo fuoriusciva di continuo dai
rubinetti di una fontana e aveva il
colore del rame. Nel quartiere era uno
dei pochi posti dove la gente poteva
rifornirsi d'acqua, se così si poteva
dare titolo a quella poltiglia.
Erika e il ragazzo
accostarono le bocche al getto d'acqua e
si dissetarono prima di salire nei
locali occupati dalla donna.
- Allora sei deciso a
salire su da me?
- Certo! Altrimenti cosa
sarei venuto a fare qui?
- Va bene, dai, seguimi.
Le rampe di scale che
portavano all'ultimo piano dell'edificio
erano coperte da calcinacci. Erika
precedette il ragazzo sino a una porta
di metallo chiusa con una doppia catena.
- Ehi! Ma dove abiti, in
una fortezza?
-
Eh eh eh... La
prudenza non è mai troppa.
Erika tolse da sotto la
sottana il mazzo delle chiavi e le infilò
una dopo l'altra nelle serrature. Il
rumore di un chiavistello che si
schiudeva annunciò il loro ingresso nel
rifugio.
Il locale era un solaio un
tempo adibito a magazzino. Nel soffitto,
fra le travi, trovava spazio un ampio
lucernario da cui filtrava la luce che
illuminava il locale.
- Carino questo posto.
- Mi c'è voluto parecchio
tempo per renderlo agibile. Qui mi sento
la padrona di casa.
L'ambiente, piuttosto
spartano, si caratterizzava per la
presenza di una libreria di legno che
occupava l'intera parete di fronte
all'ingresso. Un divano in stoffa lacera
e un tavolino in legno occupavano un
angolo della stanza, vicino alla piccola
finestra che dava sulla ex Piazza
d'Armi. Dappertutto, sul pavimento, c'erano accatastate pile di libri. Sotto
il lucernario, al centro della stanza,
trovava posto un ampio letto a due
piazze
- Ma cosa te ne fai di
tutti questi libri? Sono migliaia!
- Non è facile spiegarlo,
ma ci proverò. Leggere un libro è
molto importante perché aiuta a
conoscere se stessi. Più è grande il
talento di chi lo scrive, più è in
grado d'infastidirci con le sue parole.
Specie nel momento in cui riesce a
mettere in discussione le nostre piccole
certezze quotidiane.
- Non ho capito nulla di
quello che hai detto.
- Non importa, andiamo a
sederci.
Entrambi si avvicinarono al
divano, poi si misero a sedere. Erika si
liberò della bisaccia che portava
tracollo da cui tirò fuori una
bottiglia di vino.
- Ma allora non era uno
scherzo. Hai davvero una bottiglia di
vino!
- Certo che ce l'ho, che ti
credevi.
- Beh, apriamola, dai, che
aspettiamo?
Erika si avvicinò alla
credenza e prese due tazze da uno dei
ripiani. Si servì di un cavaturaccioli
per aprire la bottiglia. Il vino sgorgò
dal recipiente e si riversò sul
pavimento e nelle tazze.
Prima di allora non aveva
mai fatto entrare nessun altro nel suo
rifugio. Quella mattina uscendo da casa
aveva preso una decisione importante,
una scelta che rimuginava da tempo
memorabile e
finalmente aveva trovato sufficiente coraggio di
metterla in pratica.
Sorseggiarono il vino e ne
gustarono il dolce sapore. Da molti anni
non assaporava una simile prelibatezza.
- Ti piace?
- Molto. E' la prima volta
che ne bevo, non credevo che il vino
fosse così frizzante e dolce.
- Sì è vero, il lambrusco
è inebriante.
- Chissà quante altre cose
nascondi fra le mura di questo rifugio.
- Tante, ma è un mio
segreto. Dai vieni qua, avvicinati.
Erika allungò la mano sui
pantaloni lerci e puzzolenti dell'ospite
fino a raggiungere l'inguine, dopodiché
infilò le dita nella patta e l'aprì.
Era trascorso molto tempo dall'ultima
volta che aveva fatto del sesso:
vent'anni. In tutto questo tempo non
aveva mai voluto accoppiarsi con nessun
uomo per paura d'esserne contagiata.
Il gran numero di ceppi di
virus letali, trasmessi per via
sessuale, erano fra le maggiori cause
dei decessi fra la popolazione. Stavolta
non le importava del pericolo cui
sarebbe andata incontro. Dinanzi a sé
aveva un giovane poco più che ventenne
disposto a soddisfarla e in cambio dei
suoi servizi chiedeva solo un tozzo di
pane, nient'altro. Lei invece voleva
molto di più rispetto a quello che lui
era disposto a darle.
La mano di Erika raggiunse
il cazzo del ragazzo e lo strinse fra le
dita: era moscio. Eppure c'era stato un
tempo in cui la sua mano sapeva produrre
ben altri effetti negli uomini, ma
quelli erano altri tempi. Iniziò a
masturbarlo con un certo timore: non
aveva più la mano allenata per fare
quel genere di cose. I corpi cavernosi
sollecitati dal movimento della mano si
dilatarono e il cazzo prese a
inturgidirsi. Erika accelerò i
movimenti delle dita sfregando
ripetutamente la superficie della
cappella. Il ragazzo ebbe un sussulto e
si tirò indietro. Lei s'inginocchiò ai
piedi del divano, afferrò con le mani
le brache del ragazzo e le calò sino a
farle cadere per terra, poi strinse
nuovamente il cazzo fra le dita e lo
infilò fra le labbra.
Il fetore di piscio che
emanava il rotolo di carne che pendeva
fra le cosce del ragazzo era così
nauseabondo che a stento Erika si
trattenne dall'espellerlo dalla bocca.
Superata l'iniziale repulsione prese a
succhiarlo fino ad avvertire un certo
piacere. Con abilità fece scivolare la
cappella fra le labbra e con la punta
della lingua leccò più volte il
frenulo. Semi sdraiato sul divano il
ragazzo lasciò che Erika soddisfacesse
quella che pensava fosse solo una grande
voglia di cazzo.
- Ti piace succhiarlo, eh?
Certo che le piaceva
succhiarlo, ne aveva succhiato di ogni
razza e dimensione quando non esisteva
il pericolo del contagio. Non assaporava
una cappella da tempo memorabile e
adesso voleva concedersi una rivincita
sulla natura riprendendosi ciò che per
tanto tempo si era negata. Sotto la
spinta del ragazzo il cazzo le scivolò
nella bocca, del tutto priva di denti,
infilandosi sino in gola. Erika tossì e
tirò indietro il cazzo espellendolo,
poi riprese a menarlo spasmodicamente
senza interrompere la propria azione.
Quando il ragazzo fu lì per eiaculare
Erika avvicinò le labbra alla cappella
e ingoiò lo sperma fino all'ultima
goccia.
Le ombre della sera stavano
facendo capolino sui vetri del
lucernario. Sdraiati sul letto, nudi,
uno accanto all'altra, potevano
osservare il cielo attraverso la
finestra posta nel soffitto. Erano
trascorse poco più di due ore dal
momento in cui avevano fatto il loro
ingresso nel solaio.
Lui giovane e aitante, lei
vecchia con la pelle cadente e il viso
pieno di rughe. Per tutta la sera il
ragazzo le aveva fatto un sacco di
domande, specie sui beni che lei teneva
nascosti nel rifugio. Erika era stata al
gioco rivelandogli che possedeva una
grande quantità di oro e monili
preziosi, oggetti che teneva nascosti
nel solaio, accrescendo la voglia
dell'uomo di entrarne in possesso.
- Ti sei chiesto perché
fra i tanti ragazzi seduti sul muretto
ho scelto proprio te?
- Forse perché mi hai
giudicato il più carino oppure il più
adatto a soddisfare le tue voglie.
- Sbagli! Ti ho scelto
perché fra tutti eri quello
dall'aspetto più disperato. Mi hai dato
l'impressione di essere disposto a
tutto, o non è vero?
- Forse. - rispose il
ragazzo.
- Anche a uccidere magari.
- Beh...
- No, non rispondere, lo
farai fra poco.
Erika posò la mano sul
cazzo e lo strofinò con la mano senza
alcun riguardo. Il ragazzo, nonostante
fosse già venuto un paio di volte nel
volgere di poco tempo, non rimase
insensibile a quel tocco. Lasciò che
gli sfiorasse la cappella desideroso di
conoscere quali fossero le reali
intenzioni della donna.
Erika afferrò il barattolo
che aveva accantonato sotto il letto in
previsione di un evento come quello.
Intinse le dita nell'olio da motore
custodito in un barattolo sotto il
letto, residuato ormai introvabile, e
avvicinò le dita alla fica, poi depositò
il fluido sulla mucosa uterina.
- Infilami il cazzo nella
fica e fammi godere un'ultima volta.
- Perché dici questo?
Erika non rispose, allargò
le cosce e invitò l'uomo a penetrarla.
Allungò la mano e accarezzò a lungo il
cazzo prima d'introdurlo nella fica, poi
lasciò che l'uomo la penetrasse.
Il cazzo entrò con facilità
nella vagina facilitato nel suo percorso
dal fluido oleoso depositato nella cavità.
La sensazione di piacere che Erika provò
non aveva pari rispetto agli atti di
masturbazione compiuti durante quegli
anni. Ormai aveva dimenticato quel
genere di godimento.
Il ragazzo seguitò a
scoparla senza accorgersi del malessere
che Erika si portava appresso. La
sentiva ansimare di piacere mentre gli
premeva i calcagni contro le natiche
attirandolo a sé.
- Ti piace questa casa? Ti
piacciono i monili d'oro che tengo
nascosti? Sono tutti tuoi, basta che
assecondi un mio desiderio.
Trafelato il ragazzo riuscì
a farfugliare solo poche parole.
- Farò tutto quello che
vuoi. - disse.
Erika premette con maggior
forza i talloni contro i glutei
dell'uomo attirandolo a sé. Entrambi
avevano i corpi imperlati di sudore. Il
ritmo si fece ancora più serrato. Non
potevano prolungare all'infinito quegli
attimi, entrambi ne erano consci. Il
ragazzo ebbe un fremito e sembrò
prossimo a venire.
- Ti prego... non venire.
Aspetta... aspettami.
Il ragazzo rallentò la sua
azione compiacendo l'occasionale
compagna. Erika ebbe delle contrazioni
all'utero e cominciò a muovere il
bacino in avanti.
- Stringi le mani sul mio
collo e non mollarle più. E tutto ciò
che c'è nella casa resterà tuo per
sempre.
Il ragazzo ebbe un attimo
di esitazione, poi riprese a scoparla
con maggior lena
- Stringi! Stringi! Ti
prego fallo! Ora... oraaa!
Quando Erika stava per
venire il ragazzo le appoggiò le mani
sul collo e incominciò a premere i
pollici contro l'epiglottide. Le
contrazioni dell'utero si sommarono agli
spasmi del capo della donna, l'ultima
cosa che
Erika
vide prima di morire fu, attraverso il
lucernario, un cielo pieno di stelle.
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