NIENTE PER BOCCA
(Duemilaquarantadue)
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

  

  
E
rika camminava, attenta a non incespicare, sul selciato accidentato di pietre e sassi che dall'Ospedale Maggiore conduceva a Porta Santa Croce. Ai piedi calzava un paio di scarpe da uomo, prive di lacci, che giorni addietro aveva sottratto a un vecchio, in fin di vita, affidato alle sue cure d'infermiera. Un tempo era solita percorrere quel tratto di strada in sella alla bicicletta, ma dopo che i mezzi di locomozione erano pressoché scomparsi non le erano rimaste che le proprie gambe per spostarsi da un quartiere all'altro della città.
   Le nubi tossiche sollevate dall'esplosione delle testate nucleari durante la guerra dei Dieci Giorni avevano provocato un immane disastro ambientale. Il clima sul pianeta era mutato in maniera radicale. Milioni di persone erano decedute per gli effetti devastanti delle radiazioni atomiche. Le ceneri radioattive avevano prodotto pesanti mutazioni genetiche nell'ambiente compromettendo, di fatto, la vita dell'uomo sulla terra.
   La primavera, nonostante il colore del cielo, somigliante all’arancione, era sopraggiunta puntuale come ogni anno. A Erika sarebbe piaciuto annusare ancora una volta il profumo dei tigli in fiore. Un tempo le strade della città erano occupate da interi filari posti ai lati delle carreggiate. Ma la crisi energetica aveva indotto la popolazione ad abbattere le piante e impiegare il legname per riscaldare le abitazioni.
   A seguito degli effetti delle ceneri radioattive la popolazione era andata sempre più riducendosi. Uomini e donne sopravvivevano nella più assoluta povertà. Ecclesiastici e nobiluomini, appoggiati da fedeli servitori, occupavano il territorio urbano attorno alla cattedrale, trincerati dietro i bastioni che avevano fatto erigere a difesa del quartiere da cui uscivano raramente. Le mura, alte più di tre metri, servivano a proteggerli dalla accozzaglia di malfattori che nelle ore notturne erano padroni incontrastati della città.
   Erika aveva da poco compiuto sessant'anni e per sopravvivere prestava la sua opera d'infermiera nelle corsie dell'Ospedale Maggiore o di quanto n'era rimasto. Le condizioni del nosocomio erano fatiscenti. Dei padiglioni che un tempo costituivano l'essenza dell'ospedale soltanto pochi edifici erano rimasti in piedi. Nelle camere di degenza, sudice e maleodoranti, raramente c'era posto sufficiente per chi stava male. Due o più persone occupavano il medesimo letto. Uomini e donne giacevano ammassati uno sull'altra, senza precauzioni per le malattie infettive di cui erano portatori, con la conseguenza di contagiarsi a vicenda.
   L'Ospedale era diventato un lazzaretto dove i poveri andavano lì a morire, mentre chi era in grado di comperarsi l'assistenza rimaneva a curarsi a casa. La maggioranza delle persone non erano assistite, ma abbandonate al loro destino.
   Erika lavorava nel padiglione che ospitava i reparti di ginecologia e maternità: il più importante dell'Ospedale Maggiore, l'unico fornito di gruppo elettrogeno, alimentato a nafta, che provvedeva a erogare energia elettrica per poche ore al giorno, e soltanto in occasione dei parti.
   Le mutazioni genetiche, sopravvenute dopo il passaggio delle nubi tossiche, avevano indotto i medici a effettuare i parti eseguendo esclusivamente il taglio cesareo, questo per evitare che il feto venisse a contatto con la mucosa uterina che durante il periodo di gestazione secerneva un liquido, altamente tossico, in grado recare danni al nascituro.
   In una società allo sbando come era quella post atomica non c'era peggior cosa che essere più poveri dei poveri. Erika lo sapeva bene, per questo si arrabattava nell'arraffare ogni sorta di oggetto che le capitava sotto mano. Approfittava dei momenti in cui le pazienti erano addormentate per depredarle degli oggetti di loro proprietà, beni che provvedeva a barattare ai mercati generali, vicino al Ponte di Mezzo. 
   Dopo avere trascorso l'intera giornata fra le mura dell’ospedale, impegnata ad accudire corpi malati, solo nel tardo pomeriggio aveva preso la strada che l'avrebbe condotta verso casa. Uscendo dalle mura dell'ospedale si era incamminata verso Strada Maestra, una delle poche strade rimaste pavimentate da lastroni di pietra, rara testimonianza di quella che un tempo era la Via Emilia.

   L'odore dell'aria era stomachevole per colpa del mancato funzionamento delle fogne ormai in disuso, ma soprattutto per la cattiva abitudine degli abitanti dell'Oltretorrente, il quartiere più popoloso della città, di svuotare dalle finestre, nella pubblica strada, i vasi da notte e ogni tipo di rifiuto.
   Una infinità di mendicanti popolava i marciapiedi. C'era persino chi traeva profitto dall'altrui povertà affittando bambini scianchi e malconci dalle rispettive famiglie per attirare la pietà dei passanti e indurli all'elemosina.
   Erika affrettò il passo in direzione del mercato senza commuoversi dinanzi alle mani, assai numerose, che si protendevano nella sua direzione e imploravano la carità. Quando giunse in prossimità del piazzale antistante la chiesa della S.S. Annunziata, ubicato a poca distanza dal Ponte di Mezzo, la folla di persone si era fatta più consistente. A ridosso delle mura dell'antica chiesa dei frati francescani trovavano posto numerose bancarelle di mercanti. Ogni genere di mercanzia era esposta sui bancali, dai preziosi fiammiferi ai televisori ormai inservibili, ma soprattutto era commercializzato del cibo: l'elemento più importante per la sopravvivenza delle persone.
   La maggioranza della gente era così povera che a stento riusciva a sostenere la spesa per una pagnotta di pane. Gli avanzi della tavola, quelli che un tempo venivano distribuiti agli animali domestici, erano venduti al mercato. Persino le briciole di pane erano messe in vendita a 1/4 del valore di una pagnotta di pane.
   Erika si avvicinò alla bancarella di un venditore di pane e si perse a guardare le pagnotte esposte sul banco. Tracolla reggeva una sporta dove custodiva il bottino della giornata di lavoro trascorsa in ospedale. Prima di effettuare un qualsiasi acquisto osservò attentamente la mercanzia esposta. Le pagnotte erano di varie dimensioni e diversa qualità, ma soprattutto d'aspetto e colore diverso, secondo il tipo di mistura di crusca e farina grossa d'avena con cui era stato impastato il pane. Erika afferrò una pagnotta e la soppesò con la mano, come a volerne valutare il peso. 
   - Quanto mi verrebbe a costare?
   L'ambulante, in piedi dietro la bancarella, prese la stadèra, infilò il pollice nel gancio ad anello e appoggiò la pagnotta di pane sul piatto di rame. Sull'asta metallica, col contrappeso in perfetto equilibrio, si soffermò a guardare le incisioni dentate con indicati i grammi.
   - Il peso è di seicento grammi. Ti costerà un soldo e venti centesimi.
   L'ambulante le porse la pagnotta e accompagnò il gesto con un sorriso a tre denti: tanti gliene erano rimasti nella bocca, poi si lasciò sfuggire una frase di un rituale ormai consolidato.
   - Altrimenti ci possiamo mettere d'accordo in altro modo. Ah! ah! ah! Sai bene quanto mi piacciono le donne del tuo stampo.
   Erika sorrise, afferrò la pagnotta di pane e la infilò nella sporta. Liquidata la somma convenuta si allontanò dal banco. Poco più in là, nella Piazzetta della Rocchetta, prospiciente la salita del Ponte di Mezzo, un vasto numero di banchetti, gestiti da ambulanti, circondava il monumento a Filippo Corridoni, eroe della prima guerra mondiale, sistemato nel centro della piazza. Alcuni degli ambulanti vendevano avanzi di cibo cotti provenienti dalle tavole dei signori. Molti di quei pezzi di carne erano ammuffiti e dall'aspetto stomachevole, ma questo non impediva alla povera gente di mangiarli non avendo altre alternative di sostentamento.
   Quando giunse in prossimità del banco di Quasimodo l'intenso profumo di zuppa di cipolle le accentuò l'appetito mai sopito. Si avvicinò alla pentola in primo piano sul bancone e osservò attentamente la minestra. Si sporse in avanti e annusò con avidità i vapori che emanava la zuppa di cipolle.
   - Il profumo è eccellente. Penso che dovrai servirmene una bella porzione. – disse rivolgendosi a Quasimodo.
   - Preferisci inzuppare il pane direttamente nella pentola, oppure ne vuoi una ciotola? - sbottò l'ambulante che aveva riconosciuto Erika.
   - Preferisco una ciotola. Mi raccomando. Che la zuppa sia densa e non brodaglia! 
   Erika tolse dalla sacca una ciotola di terracotta e la porse all'ambulante. L’uomo intinse il mestolo nella pentola. Rimescolò il liquido in modo da sollevare la parte densa che gravitava sul fondo della pentola, scodellò la zuppa nella ciotola e si premurò di restituirla a Erika.
   - Ottanta centesimi. - disse l'ambulante, trattenendo la tazza a mezz'aria in attesa che Erika sborsasse la cifra pattuita. Soltanto dopo che la donna ebbe posato le monete pattuite sul tavolo acconsentì a restituirle la ciotola.
   Erika strinse le dita attorno alla tazza e assaporò il calore che trasudava dalla parete in terracotta. Si mise a sedere sulla panca e tolse dalla sacca la pagnotta di pane che poc'anzi aveva acquistato. Prima d'intingere il pane nella zuppa si soffermò a guardare i volti dei giovinastri seduti sul muricciolo che faceva da argine al torrente a poca distanza da lei. Le loro facce erano smunte e avvizzite. Il colorito pallido della pelle, senza forza nè nerbo, era identico a quello delle piante che crescono nell'ombra. Tagliò alcune fette di pane. Ne afferrò una fetta e la intinse nella zuppa. Lasciò che la minestra, piuttosto densa e ricca di sapori, impregnasse la mollica, dopodiché si cibò del tozzo di pane con avidità.
   I ragazzi rimasero a osservare i movimenti della bocca di Erika che, imperturbabile, andò avanti a saziarsi di cibo sotto il loro sguardo. Anzi, sembrava godere dell'interesse che stava suscitando su di loro e faceva di tutto per attirarne l'attenzione. Quando la ciotola fu vuota fece scorrere una fetta di pane sulla superficie interna di terracotta e asportò le tracce di crema di cipolle depositate intorno alla parete.
   Terminato il pasto sollevò un gluteo ed emise un peto di tale intensità che a quel fragore i ragazzi ribatterono con un lungo applauso divertito. Non paga emise un rutto e liberò dalla bocca i gas di cui si era riempita lo stomaco. Prima di alzarsi osservò per l'ennesima volta i volti dei ragazzi di strada, indecisa nella scelta che da lì a poco sarebbe andata a compiere. Ripose nella sacca gli avanzi della pagnotta che giacevano sul tavolo e con la ciotola stretta nella mano si avvicinò al muretto dove i ragazzi erano seduti uno accanto all'altro.
   Da quel punto di osservazione poteva vedere lo scorrere delle acque del torrente dal colore simile al rame che scendevano verso la pianura. Alcune lavandaie affollavano la riva e immergevano i capi di vestiario nelle torbide acque.
   - Tu!
   Con tono imperativo si rivolse a uno dei ragazzi seduti sul muretto, più interessato a togliersi le caccole dal naso piuttosto che occuparsi di lei.
   - Tieni, prendi la ciotola e vai a lavarla nel fiume. Ti aspetto qui.
   Sorpreso dalla chiamata e sollecitato dalle grida dei compagni che lo incoraggiavano ad afferrare la ciotola, il giovane scese dal muretto, afferrò la tazza e si precipitò lungo il sentiero che conduceva al torrente, conscio che al ritorno l'attendeva la riconoscenza della donna. Quando ricomparve, dopo avere provveduto a lavare la ciotola, Erika era lì ad aspettarlo. 
   Insieme presero la strada che conduceva all'abitazione della donna nel cuore dell'Oltretorrente.
   - Ho una sorpresa per te. - disse rivolgendosi al ragazzo. - Come ricompensa berremo insieme una bottiglia di vino!
   - Ehi, ma dove l'hai presa?
   - Ho fatto un baratto, semplice no!
   - Tu in cambio cosa gli hai dato di così prezioso?
   - La fica! Che altro?
   - Dai, non fare la scema. Cosa gli hai dato?
   - Ho promesso ai parenti di una paziente che le avrei trovato un letto singolo. Loro però non immaginano che difficilmente riuscirà a sopravvivere fino a domani mattina.
   - Cazzo, ma tu sei peggio del diavolo.
   - No, carino, sono solo più troia delle altre donne. 
   Mentre pronunciava queste parole raggiunsero Borgo Santo Spirito. Lasciarono alla loro destra il Parco Ducale, da tempo privo di alberi e adibito a cimitero cittadino, e proseguirono oltre. 
   L'odore emanato dalle fosse comuni, lasciate aperte dai necrofori per coprirle con terriccio appena sarebbero state piene di cadaveri, era nauseante e difficile da sopportare. Erika e il ragazzo avvicinarono un pezzo di stoffa dinanzi al naso per ripararsi dall'odore acre dei cadaveri in putrefazione e affrettarono il passo.
   L'alloggio di Erika si trovava a pochi passi dal cimitero. Il fabbricato, una ex caserma parzialmente in rovina, un tempo adibito a biblioteca comunale, era provvisto di mura piuttosto spesse.
   In un angolo della ex piazza d'armi, poco distante dalle autorimesse, trovava posto un pozzo artesiano. A causa della forte pressione a cui l'acqua era sottoposta nel sottosuolo fuoriusciva di continuo dai rubinetti di una fontana e aveva il colore del rame. Nel quartiere era uno dei pochi posti dove la gente poteva rifornirsi d'acqua, se così si poteva dare titolo a quella poltiglia.
   Erika e il ragazzo accostarono le bocche al getto d'acqua e si dissetarono prima di salire nei locali occupati dalla donna.
   - Allora sei deciso a salire su da me?
   - Certo! Altrimenti cosa sarei venuto a fare qui?
   - Va bene, dai, seguimi.
   Le rampe di scale che portavano all'ultimo piano dell'edificio erano coperte da calcinacci. Erika precedette il ragazzo sino a una porta di metallo chiusa con una doppia catena.
   - Ehi! Ma dove abiti, in una fortezza?
  
- Eh eh eh... La prudenza non è mai troppa.
   Erika tolse da sotto la sottana il mazzo delle chiavi e le infilò una dopo l'altra nelle serrature. Il rumore di un chiavistello che si schiudeva annunciò il loro ingresso nel rifugio.
   Il locale era un solaio un tempo adibito a magazzino. Nel soffitto, fra le travi, trovava spazio un ampio lucernario da cui filtrava la luce che illuminava il locale.
   - Carino questo posto.
   - Mi c'è voluto parecchio tempo per renderlo agibile. Qui mi sento la padrona di casa.
   L'ambiente, piuttosto spartano, si caratterizzava per la presenza di una libreria di legno che occupava l'intera parete di fronte all'ingresso. Un divano in stoffa lacera e un tavolino in legno occupavano un angolo della stanza, vicino alla piccola finestra che dava sulla ex Piazza d'Armi. Dappertutto, sul pavimento, c'erano accatastate pile di libri. Sotto il lucernario, al centro della stanza, trovava posto un ampio letto a due piazze
   - Ma cosa te ne fai di tutti questi libri? Sono migliaia!
   - Non è facile spiegarlo, ma ci proverò. Leggere un libro è molto importante perché aiuta a conoscere se stessi. Più è grande il talento di chi lo scrive, più è in grado d'infastidirci con le sue parole. Specie nel momento in cui riesce a mettere in discussione le nostre piccole certezze quotidiane.
   - Non ho capito nulla di quello che hai detto.
   - Non importa, andiamo a sederci.
   Entrambi si avvicinarono al divano, poi si misero a sedere. Erika si liberò della bisaccia che portava tracollo da cui tirò fuori una bottiglia di vino.
   - Ma allora non era uno scherzo. Hai davvero una bottiglia di vino!
   - Certo che ce l'ho, che ti credevi.
   - Beh, apriamola, dai, che aspettiamo?
   Erika si avvicinò alla credenza e prese due tazze da uno dei ripiani. Si servì di un cavaturaccioli per aprire la bottiglia. Il vino sgorgò dal recipiente e si riversò sul pavimento e nelle tazze.

   Prima di allora non aveva mai fatto entrare nessun altro nel suo rifugio. Quella mattina uscendo da casa aveva preso una decisione importante, una scelta che rimuginava da tempo memorabile e finalmente aveva trovato sufficiente coraggio di metterla in pratica. 
   Sorseggiarono il vino e ne gustarono il dolce sapore. Da molti anni non assaporava una simile prelibatezza.
   - Ti piace?
   - Molto. E' la prima volta che ne bevo, non credevo che il vino fosse così frizzante e dolce.
   - Sì è vero, il lambrusco è inebriante.
   - Chissà quante altre cose nascondi fra le mura di questo rifugio.
   - Tante, ma è un mio segreto. Dai vieni qua, avvicinati.
   Erika allungò la mano sui pantaloni lerci e puzzolenti dell'ospite fino a raggiungere l'inguine, dopodiché infilò le dita nella patta e l'aprì. Era trascorso molto tempo dall'ultima volta che aveva fatto del sesso: vent'anni. In tutto questo tempo non aveva mai voluto accoppiarsi con nessun uomo per paura d'esserne contagiata. 
   Il gran numero di ceppi di virus letali, trasmessi per via sessuale, erano fra le maggiori cause dei decessi fra la popolazione. Stavolta non le importava del pericolo cui sarebbe andata incontro. Dinanzi a sé aveva un giovane poco più che ventenne disposto a soddisfarla e in cambio dei suoi servizi chiedeva solo un tozzo di pane, nient'altro. Lei invece voleva molto di più rispetto a quello che lui era disposto a darle.
   La mano di Erika raggiunse il cazzo del ragazzo e lo strinse fra le dita: era moscio. Eppure c'era stato un tempo in cui la sua mano sapeva produrre ben altri effetti negli uomini, ma quelli erano altri tempi. Iniziò a masturbarlo con un certo timore: non aveva più la mano allenata per fare quel genere di cose. I corpi cavernosi sollecitati dal movimento della mano si dilatarono e il cazzo prese a inturgidirsi. Erika accelerò i movimenti delle dita sfregando ripetutamente la superficie della cappella. Il ragazzo ebbe un sussulto e si tirò indietro. Lei s'inginocchiò ai piedi del divano, afferrò con le mani le brache del ragazzo e le calò sino a farle cadere per terra, poi strinse nuovamente il cazzo fra le dita e lo infilò fra le labbra.
   Il fetore di piscio che emanava il rotolo di carne che pendeva fra le cosce del ragazzo era così nauseabondo che a stento Erika si trattenne dall'espellerlo dalla bocca. Superata l'iniziale repulsione prese a succhiarlo fino ad avvertire un certo piacere. Con abilità fece scivolare la cappella fra le labbra e con la punta della lingua leccò più volte il frenulo. Semi sdraiato sul divano il ragazzo lasciò che Erika soddisfacesse quella che pensava fosse solo una grande voglia di cazzo.
   - Ti piace succhiarlo, eh?
   Certo che le piaceva succhiarlo, ne aveva succhiato di ogni razza e dimensione quando non esisteva il pericolo del contagio. Non assaporava una cappella da tempo memorabile e adesso voleva concedersi una rivincita sulla natura riprendendosi ciò che per tanto tempo si era negata. Sotto la spinta del ragazzo il cazzo le scivolò nella bocca, del tutto priva di denti, infilandosi sino in gola. Erika tossì e tirò indietro il cazzo espellendolo, poi riprese a menarlo spasmodicamente senza interrompere la propria azione. Quando il ragazzo fu lì per eiaculare Erika avvicinò le labbra alla cappella e ingoiò lo sperma fino all'ultima goccia.

  Le ombre della sera stavano facendo capolino sui vetri del lucernario. Sdraiati sul letto, nudi, uno accanto all'altra, potevano osservare il cielo attraverso la finestra posta nel soffitto. Erano trascorse poco più di due ore dal momento in cui avevano fatto il loro ingresso nel solaio.
   Lui giovane e aitante, lei vecchia con la pelle cadente e il viso pieno di rughe. Per tutta la sera il ragazzo le aveva fatto un sacco di domande, specie sui beni che lei teneva nascosti nel rifugio. Erika era stata al gioco rivelandogli che possedeva una grande quantità di oro e monili preziosi, oggetti che teneva nascosti nel solaio, accrescendo la voglia dell'uomo di entrarne in possesso.

   - Ti sei chiesto perché fra i tanti ragazzi seduti sul muretto ho scelto proprio te?
   - Forse perché mi hai giudicato il più carino oppure il più adatto a soddisfare le tue voglie.
   - Sbagli! Ti ho scelto perché fra tutti eri quello dall'aspetto più disperato. Mi hai dato l'impressione di essere disposto a tutto, o non è vero?
   - Forse. - rispose il ragazzo.
   - Anche a uccidere magari.
   - Beh...
   - No, non rispondere, lo farai fra poco.
   Erika posò la mano sul cazzo e lo strofinò con la mano senza alcun riguardo. Il ragazzo, nonostante fosse già venuto un paio di volte nel volgere di poco tempo, non rimase insensibile a quel tocco. Lasciò che gli sfiorasse la cappella desideroso di conoscere quali fossero le reali intenzioni della donna.
   Erika afferrò il barattolo che aveva accantonato sotto il letto in previsione di un evento come quello. Intinse le dita nell'olio da motore custodito in un barattolo sotto il letto, residuato ormai introvabile, e avvicinò le dita alla fica, poi depositò il fluido sulla mucosa uterina.
   - Infilami il cazzo nella fica e fammi godere un'ultima volta.
   - Perché dici questo?
   Erika non rispose, allargò le cosce e invitò l'uomo a penetrarla. Allungò la mano e accarezzò a lungo il cazzo prima d'introdurlo nella fica, poi lasciò che l'uomo la penetrasse.
   Il cazzo entrò con facilità nella vagina facilitato nel suo percorso dal fluido oleoso depositato nella cavità. La sensazione di piacere che Erika provò non aveva pari rispetto agli atti di masturbazione compiuti durante quegli anni. Ormai aveva dimenticato quel genere di godimento.
   Il ragazzo seguitò a scoparla senza accorgersi del malessere che Erika si portava appresso. La sentiva ansimare di piacere mentre gli premeva i calcagni contro le natiche attirandolo a sé.
   - Ti piace questa casa? Ti piacciono i monili d'oro che tengo nascosti? Sono tutti tuoi, basta che assecondi un mio desiderio.
   Trafelato il ragazzo riuscì a farfugliare solo poche parole.
   - Farò tutto quello che vuoi. - disse.
   Erika premette con maggior forza i talloni contro i glutei dell'uomo attirandolo a sé. Entrambi avevano i corpi imperlati di sudore. Il ritmo si fece ancora più serrato. Non potevano prolungare all'infinito quegli attimi, entrambi ne erano consci. Il ragazzo ebbe un fremito e sembrò prossimo a venire.
   - Ti prego... non venire. Aspetta... aspettami.
   Il ragazzo rallentò la sua azione compiacendo l'occasionale compagna. Erika ebbe delle contrazioni all'utero e cominciò a muovere il bacino in avanti.
   - Stringi le mani sul mio collo e non mollarle più. E tutto ciò che c'è nella casa resterà tuo per sempre.
   Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione, poi riprese a scoparla con maggior lena
   - Stringi! Stringi! Ti prego fallo! Ora... oraaa!
   Quando Erika stava per venire il ragazzo le appoggiò le mani sul collo e incominciò a premere i pollici contro l'epiglottide. Le contrazioni dell'utero si sommarono agli spasmi del capo della donna, l'ultima cosa che
Erika vide prima di morire fu, attraverso il lucernario, un cielo pieno di stelle.

 

 

 
 

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