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CUGINI
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
L a
caffetteria dalle vetrate turchesi,
posta all'angolo fra Via Dante e Via
Cavour, dove Benvenuto e io eravamo
soliti incontrarci, ha chiuso i
battenti. Rosa e Armando, gli anziani
coniugi che da tempo memorabile
gestivano il leggendario locale, hanno
preferito alienare l'intero stabile di
cui erano unici proprietari anziché
adeguare l'esercizio commerciale alle
norme di sicurezza emanate dal Comune.
Del cambio di destinazione
dell'antica caffetteria ero venuta a
conoscenza durante una delle mie rare
rimpatriate in città. I nuovi
proprietari si erano fatti carico della
ristrutturazione dell'immobile
trasformando la caffetteria in un
ristorante-pizzeria, privando la città
di un pregevole locale in stile liberty
denso di tradizioni.
A rendere speciale il Caffè
Cavour non era la tipicità dei prodotti
messi in vendita nel locale e nemmeno
l'arredo, ma piuttosto le storie d'amore
cominciate, maturate e terminate, fra le
volte della caffetteria. Intere
generazioni avevano flirtato ai tavoli
del locale.
Nei pomeriggi d'inverno io
e Benvenuto eravamo soliti
intrattenerci al primo piano della
caffetteria. Trascorrevamo interi
pomeriggi a crogiolarci nel nostro amore
lontani da sguardi indiscreti.
Assaporare una cioccolata in tazza,
sorseggiare un tè aromatizzato alla
vaniglia, era quanto di meglio la
signora Rosa poteva offrirci. Ma non
disdegnavamo la crema pasticcera con cui
farciva i bignè, le praline di
cioccolata, e i tranci di torta alla
frutta che talvolta consumavamo durante
gli appuntamenti.
L'antica volta di marmo,
dalla cui porta si accede al ristorante,
è una delle poche cose rimaste intatte
nella facciata dell'edificio dopo la
ristrutturazione. Una ingombrante
insegna al neon di colore azzurro,
somigliante al corpo di una sirenetta,
sovrasta la porta d'ingresso su cui
campeggia la scritta: "Pizzeria da
Salvatore - Specialità marinare".
Nell'avvicinarmi
all'edificio fui assalita da uno
sgradevole odore di fritto. Proveniva
dalle finestre della pizzeria, lasciate
aperte, congiuntamente agli schiamazzi
degli avventori che a quell'ora della
sera affollavano il locale.
Il Caffè Cavour aveva
aperto i battenti nei primi anni del
novecento. Per cento anni, fino al
giorno della chiusura, aveva mantenuto
intatto l'arredo in stile liberty con
cui era stato inaugurato. I parmigiani
consideravano il locale un luogo ideale
per imbastire conversazioni e nel
contempo consumare una bevanda calda in
assoluto relax.
Io e Benvenuto avevamo
l'abitudine di occupare il
medesimo tavolo: uno di quelli con il
piano di marmo rosa e i treppiedi di
ferro battuto. Le pareti della stanza,
affrescate in stile floreale, erano
impreziosite dalla presenza di antiche
fotografie, per lo più ingiallite,
incastonate in preziose cornici di
radica di noce, che ritraevano scorci
della città e ritratti di uomini e
donne in posa.
Accostai il viso
all’inferriata di una finestra del
ristorante che si affacciava nella
strada. Mi trovai a scrutare, di
nascosto, l'interno della pizzeria. Il
locale era diverso da come lo ricordavo,
e non solo a causa dei lavori di
ristrutturazione che ne avevano mutato
la struttura. Gli schiamazzi, la
confusione, le risate, conferivano al
ristorante un'atmosfera ordinaria
rispetto a quella raffinata che aveva
contraddistinto la caffetteria tempo
addietro. Dieci anni erano
trascorsi dall'ultima volta che ci avevo
messo piede. Dopo essermi sposata mi ero
trasferita a Roma e nei miei sporadici
rimpatri in città non mi ero mai
avvicinata alla caffetteria.
A Parma ero giunta nel
primo pomeriggio, servendomi del treno,
senza la compagnia di mio marito rimasto
a Roma ad accudire i nostri due figli
impegnati con la scuola. Avevo preso
alloggio all'Hotel Aida, in pieno centro
cittadino, decisa a trattenermi in città
per una sola notte, dopodiché sarei
ripartita per Roma dopo avere sbrigato
le pratiche notarili riguardanti
un'eredità lasciatami da zia Rosa,
deceduta poche settimane prima.
La lettura del testamento
era stata fissata nella prima mattina,
obbligandomi a lasciare la capitale con
largo anticipo per essere presente
all'apertura del testamento, ed
espletare le pratiche notarili insieme
agli altri parenti.
L'interno del ristorante
era bene illuminato. Alle pareti
trovavano posto alcune reti da pesca
intrecciate e dei quadri a olio con
nature morte. I tavoli erano affollati
di clienti. Il chiasso era eccessivo
anche per una pizzeria. Non avevo voglia
di cenare in un locale siffatto, ma ero
curiosa di visitare il resto del
ristorante per constatare di persona
com'era cambiata la stanza in cui
Benvenuto e io eravamo soliti
incontrarci.
Mi scostai dalla grata e mi
avvicinai alla volta di pietre e sassi
su cui faceva bella mostra l'insegna al
neon della sirenetta, poi entrai nella
pizzeria. Rimasi sorpresa
dall'andirivieni di camerieri che si
spostavano con grande rapidità da un
tavolo all'altro sorreggendo vassoi,
tondi e fruttiere di ogni tipo. Uno di
loro mi venne incontro e si rivolse a
me.
- Quanti siete? - disse con
vago accento napoletano.
- Sono sola.
- Ah, bene, mi segua.
- Veramente gradirei
prendere posto al piano superiore. E'
possibile?
- Penso di sì.
Lo seguii dappresso
attraverso la sala fino a raggiungere la
scala che conduceva al piano superiore.
I gradini in cotto, consumati nella
parte centrale, erano gli stessi che
avevo calpestato anni prima a dispetto
del resto del locale che aveva subito
una radicale metamorfosi.
- Le va bene qui? - disse
indicando un tavolo quadrato
apparecchiato per due persone, accanto a
una delle finestre che si affacciavano
nella strada.
- Vorrei sedermi là. -
dissi indicando un tavolo all'estremità
della sala, nello stesso punto dove ero
solita incontrarmi con Benvenuto.
- Sì, certo, non c'è
problema.
Mi accomodai al tavolo e il
cameriere mi porse la custodia in
similpelle che conteneva la carta con la
lista del menù.
- Non importa, non ne ho
bisogno. Desidero che mi porti una pizza
margherita e una lattina di chinotto.
- Provvedo immediatamente.
Mi sentivo particolarmente
eccitata, ma sapevo bene qual era
l'origine di tanta inquietudine.
L'indomani mattina dal
notaio, insieme agli altri parenti, ci
sarebbe stato anche lui: Benvenuto.
Ancora non sapevo come avrei reagito
trovandomelo di fronte. Chissà se era
cambiato dall'ultima volta che c'eravamo
visti. Di lui serbavo il ricordo di ogni
singolo tratto del viso: la forma della
bocca, il naso bitorzoluto, le labbra
sporgenti, i capelli. E il cazzo, sì,
il cazzo, proprio il cazzo. Il suo
bellissimo cazzo!
Io e Benvenuto siamo cugini
di primo grado e abbiamo la stessa età:
trentacinque anni. Siamo cresciuti a
stretto contatto, poppando il medesimo
latte dalle mammelle di mia madre che, a
differenza della sua, ne aveva in
abbondanza. Da bambini avevamo trascorso
intere giornate insieme, giocando,
applicandoci nell'apprendimento
scolastico, piangendo e ridendo. Gli
anni dell'adolescenza li avevamo
consumati come fratello e sorella, ma il
nostro rapporto con l'andare del tempo
si era trasformato in qualcosa di molto
diverso.
E' stato lui a togliermi
l'illibatezza. Mi deflorò in un
arroventato pomeriggio d'estate nel
cesso della caffetteria dove eravamo
soliti incontrarci. Sosteneva che non
gli bastava che gli succhiassi il cazzo
come avevo cominciato a fare già da
parecchio tempo. Desiderava possedermi e
io gli diedi un segno tangibile del mio
amore donandogli ciò che avevo di più
prezioso: la mia verginità, e non me ne
sono mai pentita.
La pizza che il cameriere
mise sul tavolo aveva i bordi
bruciacchiati. Servendomi di forchetta e
coltello asportai la parte abbrustolita
e cominciai a cibarmi della sottile
pasta condita con abbondante olio
d'oliva, pomodoro e mozzarella.
Il sapore era buono, anche
se per i miei gusti la pasta era un po'
troppo cotta. Fra un sorso di chinotto e
un trancio di pizza mi ritrovai a
pensare a mio cugino.
Lui e io avevamo
frequentato lo stesso liceo. Per alcuni
anni eravamo persino stati compagni di
classe. Quando rimase bocciato al
passaggio del quarto anno le nostre
strade sembrarono dividersi, invece da lì
ebbe inizio la nostra relazione amorosa.
Prima d'allora non
eravamo soliti frequentarci. Entrambi
avevamo realizzato nuove amicizie e le
nostre vite sembravano avere preso
strade diverse. Eppure, ripensandoci
bene, un episodio anticipatore di ciò
che sarebbe accaduto c'era stato.
Mentre sorseggiavo un sorso
di chinotto mi ricordai che da bambini, i
nostri genitori, in occasione di una
festa di carnevale, ci fecero indossare
gli abiti di Renzo e Lucia protagonisti
dei Promessi sposi.
Un morso a un trancio di
pizza fu l'occasione per ripensare al
primo bacio che c'eravamo scambiati.
Accadde al cinema, mentre assistevamo
alla proiezione di Pretty Woman, un film
patetico e sentimentale con protagonisti
Richard Gere e Julia Roberts. Una vera
cagata.
Ero stata io a chiedergli
d'accompagnarmi al cinema. Nel giro
delle mie amiche ero rimasta la sola a
non avere visto il film. A tutti i costi
non volevo perdermelo così chiesi a
Benvenuto di tenermi compagnia per non
recarmi al cinema da sola.
Durante una delle scene
strappalacrime mi ritrovai stretta a lui
in cerca di protezione, invece Benvenuto
ne approfittò per baciarmi. Si trattò
di un timido bacio, labbra contro
labbra, un gesto sfuggente, molto breve.
Avevo poco più di diciassette anni e
conosciuto solo brevi amori. Flirt nati
sui banchi di scuola con compagni di
classe, un po' di petting e nulla più.
Il turbamento che mi provocò
il contatto delle sue labbra fu tale che
nei giorni successivi evitai
d'imbattermi in Benvenuto e lo stesso
fece lui.
Mi vergognavo per quanto
era accaduto. Avvertivo un forte senso
di colpa, frutto di una educazione
bigotta che mi faceva sembrare
peccaminoso ciò che il mio corpo invece
percepiva come naturale.
Cercai in tutti i modi di
rimuovere dalla mente l'episodio di cui
ero stata protagonista, ma ero
affascinata dall'eventualità che
potesse ripetersi quell'abbraccio.
Smisi di pensare a
Benvenuto come a un cugino. Ero turbata
dalla bellezza del suo corpo, delle
spalle larghe, dai pettorali sporgenti e
le cosce muscolose. Una forza nuova
dominava la mia mente e non sapevo come
sottrarmi dal pensare sempre più spesso
a lui.
Qualche settimana più
tardi Benvenuto mi bloccò nei locali
dei servizi igienici della scuola. Stavo
fumando una sigaretta in compagnia di
alcune amiche quando mi prese da parte e
mi trascinò dentro la porta di un
cesso. Nemmeno una parola gli uscì
dalla bocca. Mi sospinse contro una
parete, dopodiché posò le labbra sulle
mie. Non mi scostai e lasciai che la sua
bocca deformasse la mia, ma quando la
punta della lingua cercò d'insinuarsi
in profondità serrai i denti
impedendogli di penetrarmi.
Benvenuto non si perse
d'animo. Ansimava e boccheggiava
eccitato dall'essere a contatto con il
mio corpo, ma anch'io ero eccitata, anzi
lo ero più di lui, e cercavo in tutti i
modi di nasconderglielo. Condusse le
mani sotto il bordo del maglione e
raggiunse con le dita le tette. Cominciò
a carezzarmi i capezzoli turgidi e pieni
di desiderio. Avevo il cuore in gola,
tanto ero nel pallone, e non mi
ribellai. Lo abbracciai e spalancai la
bocca lasciandola alla mercé della sua
lingua.
A quel tempo non portavo il
reggiseno. Ero magra e avevo le tette
piccole, a calice. Le rare volte che mi
capitava di indossarlo infilavo una
seconda misura. Soltanto qualche anno più
tardi i miei seni mutarono d'aspetto:
accadde quando mi ritrovai incinta.
Rimasi piacevolmente
turbata dal contatto delle mani sulle
tette. Prima d'allora a nessun altro
avevo permesso di toccarmi in quel modo,
con lui invece tutto sembrò naturale.
Avevo le tette gonfie i capezzoli
turgidi e la figa che faceva le
capriole. Continuammo a baciarci
scambiandoci un oceano di saliva dalle
nostre bocche, fintanto che la
campanella dell'intervallo pose fine
alla ricreazione interrompendo il nostro
convegno amoroso. Mi ricomposi e poco
dopo misi il muso fuori dal cesso con
lui appresso a me.
"Ma che hai per essere
così sconvolta" domandarono
all'unisono le mie amiche quando feci
ritorno da loro. "Niente, niente.
Affari di famiglia" dissi
sciogliendomi in lacrime.
La nostra storia ebbe
inizio quella mattina, nei bagni della
scuola, ed è proseguita per parecchi
anni fintanto che ho conosciuto Giorgio.
L'uomo che ho sposato e con lui sono
andata a vivere a Roma.
Una coppia di fidanzatini,
seduti a un tavolo accanto al mio, si
scambiarono qualche timido sorriso
mentre consumavano la pizza. Lui le
sfiorava il dorso della mano e
l'accarezzava voluttuosamente. Lei
contraccambiava il gesto guardandolo
teneramente negli occhi. Ripensai al
modo rozzo con cui Benvenuto era solito
rapportarsi con me. M'irritava il modo
che aveva di parlare ad alta voce quando
ci trovavamo a camminare per la strada. E
poi ero in imbarazzo se mi prendeva
sotto braccio tornando da scuola. Gli
ripetevo che non doveva farlo, ma lui
sembrava non farci caso e si prendeva
gioco di me. Ma quando mi arrabbiavo per
davvero e gli facevo una ramanzina,
allora gli compariva sulle guance un
certo rossore, ma non riuscii mai a
capire se era pudore, vergogna o rabbia
la sua.
Benvenuto era un tipo
fedele. Per lui esistevo solo io. Spesso
gli domandavo: "E se un giorno ti
tradissi?". Tutte le volte
rispondeva: " Ti mollerei". E
così è accaduto.
La nostra storia fu
tormentata. Mi affascinava il piacere
fisico che sapeva infondermi. Ero
stregata dai suoi modi, percepivo la
sconfinata voglia di trasgressione che
albergava in lui. Una voglia capace di
produrmi continui sconquassi ormonali e
liquefarmi la figa. L'amore, quello
vero, plasmato di sentimenti e non solo
di attrazione fisica e passione
sopraggiunse molto tempo più tardi,
dopo che avevamo già preso conoscenza
dei nostri corpi.
Qualche giorno dopo che
c'eravamo scambiati i primi baci, nei
servizi igienici della scuola, Benvenuto
insistette per accompagnarmi a casa. Lo
faceva spesso, e non feci troppo caso
alla sua richiesta, ma in quella
occasione feci conoscenza per la prima
volta del suo sesso.
Accadde nello scantinato
del condominio dove abitavo. Stavo
risalendo insieme a lui i gradini della
scala che dalla cantina terminava
nell'androne d'ingresso, al piano
dell'ascensore, quando mi sussurrò
all'orecchio:
"Un ultimo bacio,
dai, uno solo!" Con una certa
riluttanza tollerai che mi baciasse
senza contraccambiare il suo slancio.
Avevo paura che qualcuno ci scorgesse e
non vedevo l'ora di risalire le scale
per fare ritorno a casa. Lui, al
contrario, sembrava godere nel vedermi
riottosa. Mi prese la mano e la guidò
sopra la patta dei pantaloni. Altre
volte mi era capitato di avvertire la
protuberanza del suo sesso accostato al
mio corpo, ma non avevo ancora
assaporato il contatto diretto con le
mie mani. Mi sentivo in imbarazzo, era
la prima volta che accostavo le dita a
un cazzo.
Benvenuto mi fece da
istitutore trascinandomi la mano sopra
la stoffa dei pantaloni obbligandomi ad
accarezzare la sporgenza che aveva fra
le cosce. Abbassò la cerniera dei jeans
e mise il cazzo nella mia mano.
Era grosso e duro più di
quanto me l'ero figurato nella mente.
Imbarazzata mi divincolai dalla stretta
e scappai lasciando Benvenuto con un
palmo di naso.
Mi piaceva masturbarlo, e
provavo soddisfazione nel farlo venire
alla svelta. Lui invece si arrabbiava,
avrebbe desiderato prolungare
all'infinito il piacere che sapevo
infondergli, ma facevo di tutto per
farlo sborrare rapidamente.
I nostri incontri erano
marchiati dalla folle paura di essere
scoperti mentre ci baciavamo o
scambiavamo frasi affettuose. Sono
convinta che la gente ci avrebbe fatto
segno di scherno se ci avesse scoperti,
reputando il nostro rapporto incestuoso.
I cinema di periferia
divennero i nostri rifugi pomeridiani.
Nel buio delle sale dei cinematografi
potevamo baciarci impunemente,
abbandonandoci a esplorare i nostri
corpi. Un pomeriggio, mentre nel buio
della sala lo stavo masturbando, mi
prese il capo con la mano e mi sospinse
la bocca sulla cappella, poi disse: "Succhia!"
Non opposi resistenza, ero
sorpresa dal fatto che avesse aspettato
tanto tempo a chiedermelo; io non
desideravo altro.
Approfittando del buio
della sala e delle rare persone che
riempivano la platea, m'inginocchiai ai
suoi piedi e incomincia a succhiargli il
cazzo. Nell'attimo in cui la cappella mi
trapassò le labbra mi sembrò enorme.
Allargai la bocca e cominciai a
succhiare. Mi sentivo goffa e
impacciata. Sprovveduta com'ero non
riuscivo a capacitarmi se i movimenti
delle labbra, strette attorno al cazzo,
gli stessero provocando piacere.
"Dai succhia!
Succhia! Non smettere." - mi
supplicò.
Incominciai a fare scorrere
le labbra attorno al cazzo irrorandolo
di saliva. Se Benvenuto godeva io
appagavo i miei sensi sorbendo il cazzo
fino a togliermi il respiro. Il mio
primo pompino ottenne un risultato
eccezionale, ne fui così entusiasta che
nei giorni successivi non riuscii a
togliermi dalla testa la cappella che
con tanto piacere avevo stretto fra le
labbra.
Benvenuto mi sborrò nella
bocca dopo poco tempo che glielo
succhiavo. Deglutii lo sperma e
rialzandomi lo baciai rimettendogli
dentro la bocca quello che gli avevo
preso poc'anzi dal cazzo.
I nostri incontri erano
fugaci, di breve durata, non volevamo
destare sospetti fra le persone che ci
stavano intorno, per questa ragione il
Caffè Cavour divenne il luogo preferito
dei nostri appuntamenti. Per non dare
adito a pettegolezzi andavamo in giro
carichi di libri fingendo di recarci lì
per studiare.
Quando ero lontana da
Benvenuto mi sentivo uno straccio. Ero
angosciata, piena di rimorsi e sensi di
colpa, e con tanta paura addosso. Uno
stato di malessere che a volte si
manifestava con vertigini, capogiri,
sudorazione intensa e senso di
oppressione al torace. La causa di
questa afflizione era lui: Benvenuto.
- Desidera qualcos'altro? -
chiese il cameriere mentre mi toglieva
il piatto da sotto.
- Un caffè, un dolce, un
gelato?
- Sì, grazie, mi porti una
coppa di gelato.
- Alla frutta va bene?
- Sì, direi proprio di sì.
Seguii l'incedere del
cameriere mentre si allontanava. La
porta dei bagni si trovava all'altro
lato della stanza vicino alla scala. Era
lì che anni addietro avevo lasciato la
mia verginità.
Festeggiai in quel modo la
promozione all'esame di maturità. Prima
di allora mi ero rifiutata di concedere
la figa a Benvenuto.
Non volevo scopare perché
mi ero fissata che scopando sarei
rimasta incinta. In alternativa
Benvenuto mi aveva proposto di scoparmi
nel culo, ma non ne avevo voluto sapere
perché mi faceva paura trovarmi a
subire questo tipo di sodomia. La mia
inquietudine traeva origine dal terrore
che avevo di mettere al mondo un figlio
handicappato perché concepito da
parenti consanguinei. Questo tipo di
preoccupazione non era campato in aria,
né frutto della mia immaginazione, la
scienza stessa sosteneva l'eventualità,
seppure remota, di anomalie nel feto.
Perdere la verginità fra
le maleodoranti mura di un cesso non fu
per niente romantico, ma nella vita di
ciascuna persona ci sono momenti in cui
si compiono scelte irrazionali e quella
fu una di queste. Ricordo che avevo una
dannata paura che mi sborrasse nella
figa, neanche il preservativo si era
portato appresso, il coglione.
Quando mi deflorò mi fece
un gran male, perlomeno questo è il
ricordo che serbo di quella
prima esperienza. Le volte successive,
invece, imparai a godere del suo cazzo e
lui della mia vagina.
Da quel giorno incominciai
ad aspettare con ansia l'avvicinarsi del
periodo mestruale, anche se a ogni
scopata avevo l'accortezza di fargli
usare il preservativo. Un prolungato
ritardo del mestruo di una quindicina di
giorni mi fece pensare d'essere incinta.
Fino allora ero sempre stata regolare
nel ciclo, sballando di qualche giorno
avanti e indietro. Quel ritardo mi mandò
in crisi. Il ciclo mestruale tornò a
essere normale e il ginecologo diede la
colpa del ritardo al cortisone che avevo
assunto per un intero mese per curare
un'allergia da polline.
In più di un'occasione le
mie amiche mi chiesero ragione del
comportamento che tenevo con gli uomini.
Infatti, respingevo di continuo le
avance dei numerosi spasimanti che
m'invitavano a uscire in loro compagnia.
Alcune amiche cominciarono a sospettare
che fossi lesbica.
Ero cosciente che il
rapporto con Benvenuto non sarebbe
durato a lungo e incominciai a tradirlo.
Lo feci di nascosto, per mettere alla
prova me stessa e il rapporto che mi
legava a lui, ma quello che sapeva darmi
Benvenuto nessun altro uomo riusciva a
darmelo.
Il giorno che scoprì che
avevo una storia con il mio attuale
marito non volle più saperne di me.
Inginocchiata ai suoi piedi lo supplicai
di recedere dalla sua decisione, ma lui
non diede ascolto alle mie parole e mi
scalcio via.
Mi allontanai dalla
pizzeria nel momento in cui l'orologio
che porto al polso segnava le dieci e
qualche minuto. Lasciai alle mie spalle
l'ex caffetteria e il mio passato. Il
mattino seguente, poco prima delle
undici, mi presentai nell'ufficio
notarile vestita in maniera compassata,
adatta alla cerimonia. Indosso avevo un
tailleur blu, camicetta bianca e scarpe
nere con tacchi bassi. I capelli li
avevo acconciati con la riga in mezzo e
tirati all'indietro con due strisce
lisce che mi ricoprivano le orecchie. Ad
attendermi negli uffici del notaio
c'erano i miei parenti, tra loro anche
Benvenuto. Abbracciai tutti e per ultimo
salutai anche lui.
- Ciao. - disse aprendosi
in un cordiale sorriso.
- Ciao. - risposi
imbarazzata.
- Come va?
- Bene, e tu?
- Anch'io.
Entrambi eravamo a disagio,
confusi, ma proseguimmo a conversare
amichevolmente scambiandoci solo frasi
molto banali. E pensare che non ci
vedevamo da dieci anni. Io, invece,
avevo tante cose da dirgli. Lui non era
cambiato, ai miei occhi appariva
affascinate come e più di dieci anni
prima. Ancora una volta la sua vicinanza
mi provocò uno sbatacchiamento
ormonale. Il notaio andò avanti a
leggere il testamento della zia
trascinandosi per le lunghe. Dopo avere
espletato le formalità di rito, ci fece
firmare una serie di documenti e mi
ritrovai libera di fare ritorno a Roma.
Scendendo le scale del
palazzo dove aveva sede l'ufficio
notarile, udii la voce di Benvenuto alle
mie spalle.
- Beh, te ne vai via così?
Imbarazzata arrestai il
passo e mi girai verso di lui
- Ho fretta vorrei arrivare
a prendere il primo Intercity che parte
per Roma ed essere a casa prima di
notte.
- Neanche un caffè ti va
di prendere insieme a me?
- Beh, no, ma dai, vada per
il caffè.
Mi prese sottobraccio e al
suo fianco discesi le scale fino in
strada, poi mi divincolai dalla stretta.
- Manca poco all'ora di
pranzo ti va di consumarlo insieme a me?
Diedi una sbirciata
all'orologio. Mancava poco all'una e
assentii. C'incamminammo per Via
Garibaldi con l'intenzione di entrare in
una delle tavole calde che si affacciano
lungo la strada. Dopo pochi passi
incappammo in un self-service e ci
infilammo dentro.
Un bailamme di gente
infestava il locale. Ci sistemammo in
coda alle persone che stavano in piedi,
con il vassoio stretto nella mano,
dinanzi ai portavivande dove le addette
alla ristorazione provvedevano a
distribuire il cibo.
- E' la prima volta che mi
capita di andare a pranzo in un
self-service. - dissi.
- C'è una prima volta per
tutto. - suggerì Benvenuto.
La risposta mi diede
l'impressione d'essere sibillina, ma non
ci feci troppo caso. Presi un primo
piatto con del risotto alla milanese e
un contorno d'insalata. Benvenuto,
invece, riempì il vassoio con un piatto
di spaghetti al pesto, una braciola e
delle patate fritte. Ci accomodammo a un
tavolo d'angolo e posammo i vassoi sul
ripiano.
- Ti spiace vado in bagno.
Ho bisogno di fare la pipì. - dissi.
- No, fai pure. Ci vengo
anch'io, ho bisogno di lavarmi le mani.
Attraversammo la sala e
infilammo il locale dei servizi
igienici. Lasciai Benvenuto davanti alla
toilette degli uomini e oltrepassai la
soglia di quella per le donne. Poco dopo
mi trovai chiusa fra le mura del
gabinetto. Abbassai le mutandine per
fare la pipì, prima però accostai due
strisce di carta sul water di maiolica e
solo allora lasciai che l'urina
defluisse dalla vescica.
Stavo pisciando quando
sentii bussare alla porta.
- Occupato! - dissi.
Dall'altra parte qualcuno
seguitò, imperterrito, a battere il
pugno sulla porta con insistenza senza
desistere.
- Occupato! - ripetei
ancora.
- Sono io, apri!
Mi sentii smarrita. Non
sapevo come comportarmi, conscia di ciò
che sarebbe potuto accadere se avessi
aperto la porta.
- Dai, apri, non fare la
scema.
Tolsi il chiavistello e
lasciai che Benvenuto si ficcasse
dentro. In un attimo mi fu addosso e mi
riempì di baci. Non opposi alcuna
resistenza, lo lasciai fare aprendomi a
lui e all'opprimente desiderio che avevo
di essere scopata dal suo cazzo.
- Togli tutto! - ordinò.
Mi liberai del tailleur e
della camicia e restai in mutandine.
Benvenuto infilò la mano nel tessuto di
pizzo, con le dita mi raggiunse il pube
e accarezzò la figa. Ebbi un sussulto e
subito dopo un altro ancora, poi tutto
il mio corpo fu percorso da brividi.
Seguitò a carezzarmi le labbra della
vagina con le dita, delicatamente,
soffermandosi a strofinare il bocciolo
del clitoride, poi introdusse due dita
nella fessura e cominciò a scoparmi. Le
sue labbra sapevano di vissuto, mi
penetrò con la lingua dentro la bocca e
mi sciolsi.
Avevo la figa bagna
fradicia. Ci sapeva fare con le dita.
Oh, sì che ci sapeva fare! Non c'ero più
abituata ai suoi modi.
Ripresi a tremare in tutto
il corpo e gli rifilai un morso sul
collo addentandolo con tutta la forza
che avevo addosso. Urlò e mi sollevò
da terra, poi mi spinse con la schiena
contro il muro tenendomi sollevata da
terra con le gambe incrociate sul suo
bacino. Con il cazzo si aprì un
passaggio fra le mie cosce mentre
continuavo a morderlo dietro il collo.
Dopo un po' di tempo che mi scopava si
mise seduto sulla tavolozza del water e
mi ritrovai con le natiche appoggiate
sulle sue ginocchia.
Mi stupì quando affermò:
- La mia vita non ha senso
senza di te. Mi manca il tuo calore.
Non risposi, non avrei
potuto dirgli quello che anch'io provavo
per lui. Afferrai il cazzo nella mano e
lo infilai di nuovo nella vagina, poi
cominciai a roteare il bacino muovendolo
avanti e indietro. Le pareti della
vagina fecero presa attorno il cazzo
regalandomi un piacere che nessun altro
uomo ha mai saputo darmi.
L'orgasmo sopraggiunse
fulmineo, inaspettato. Una forte
sensazione di calore mi partì dal basso
e mi esplose nella testa scuotendomi il
corpo. Rimasi incollata a lui che
imperterrito seguitò a scoparmi senza
mai desistere, godendo di quanto gli
offriva il mio corpo.
L'acme del piacere giunse
anche per lui poco dopo.
- Vengo... Vengo...
Vengo... - gridò.
- Sì ... Sì... Sì...
L'orgasmo sopraggiunse
insieme al mio e ci trovò abbracciati.
Benvenuto mi sborrò nella vagina e io non
mi levai lasciando che il seme risalisse
dentro di me.
Arrivai alla stazione poco
prima che sopraggiungesse l'Intercity
con cui feci ritorno a Roma. Giunsi a
casa poco dopo la mezzanotte. I bimbi
dormivano, mio marito riposava nel
letto.
Mi sono chiesta infinite
volte che parte ha Benvenuto nella mia
vita e ancora non lo so. La giornata
trascorsa a Parma ha lasciato una
traccia dentro di me. Ieri ho fatto il
test di gravidanza: è risultato
positivo. Sono felice.
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