CUGINI
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

       L a caffetteria dalle vetrate turchesi, posta all'angolo fra Via Dante e Via Cavour, dove Benvenuto e io eravamo soliti incontrarci, ha chiuso i battenti. Rosa e Armando, gli anziani coniugi che da tempo memorabile gestivano il leggendario locale, hanno preferito alienare l'intero stabile di cui erano unici proprietari anziché adeguare l'esercizio commerciale alle norme di sicurezza emanate dal Comune.
   Del cambio di destinazione dell'antica caffetteria ero venuta a conoscenza durante una delle mie rare rimpatriate in città. I nuovi proprietari si erano fatti carico della ristrutturazione dell'immobile trasformando la caffetteria in un ristorante-pizzeria, privando la città di un pregevole locale in stile liberty denso di tradizioni.
   A rendere speciale il Caffè Cavour non era la tipicità dei prodotti messi in vendita nel locale e nemmeno l'arredo, ma piuttosto le storie d'amore cominciate, maturate e terminate, fra le volte della caffetteria. Intere generazioni avevano flirtato ai tavoli del locale. 
   Nei pomeriggi d'inverno io e Benvenuto eravamo soliti intrattenerci al primo piano della caffetteria. Trascorrevamo interi pomeriggi a crogiolarci nel nostro amore lontani da sguardi indiscreti. Assaporare una cioccolata in tazza, sorseggiare un tè aromatizzato alla vaniglia, era quanto di meglio la signora Rosa poteva offrirci. Ma non disdegnavamo la crema pasticcera con cui farciva i bignè, le praline di cioccolata, e i tranci di torta alla frutta che talvolta consumavamo durante gli appuntamenti.

   L'antica volta di marmo, dalla cui porta si accede al ristorante, è una delle poche cose rimaste intatte nella facciata dell'edificio dopo la ristrutturazione. Una ingombrante insegna al neon di colore azzurro, somigliante al corpo di una sirenetta, sovrasta la porta d'ingresso su cui campeggia la scritta: "Pizzeria da Salvatore - Specialità marinare".
   Nell'avvicinarmi all'edificio fui assalita da uno sgradevole odore di fritto. Proveniva dalle finestre della pizzeria, lasciate aperte, congiuntamente agli schiamazzi degli avventori che a quell'ora della sera affollavano il locale.
   Il Caffè Cavour aveva aperto i battenti nei primi anni del novecento. Per cento anni, fino al giorno della chiusura, aveva mantenuto intatto l'arredo in stile liberty con cui era stato inaugurato. I parmigiani consideravano il locale un luogo ideale per imbastire conversazioni e nel contempo consumare una bevanda calda in assoluto relax.
   Io e Benvenuto avevamo l'abitudine di occupare il medesimo tavolo: uno di quelli con il piano di marmo rosa e i treppiedi di ferro battuto. Le pareti della stanza, affrescate in stile floreale, erano impreziosite dalla presenza di antiche fotografie, per lo più ingiallite, incastonate in preziose cornici di radica di noce, che ritraevano scorci della città e ritratti di uomini e donne in posa.

   Accostai il viso all’inferriata di una finestra del ristorante che si affacciava nella strada. Mi trovai a scrutare, di nascosto, l'interno della pizzeria. Il locale era diverso da come lo ricordavo, e non solo a causa dei lavori di ristrutturazione che ne avevano mutato la struttura. Gli schiamazzi, la confusione, le risate, conferivano al ristorante un'atmosfera ordinaria rispetto a quella raffinata che aveva contraddistinto la caffetteria tempo addietro.  Dieci anni erano trascorsi dall'ultima volta che ci avevo messo piede. Dopo essermi sposata mi ero trasferita a Roma e nei miei sporadici rimpatri in città non mi ero mai avvicinata alla caffetteria.
   A Parma ero giunta nel primo pomeriggio, servendomi del treno, senza la compagnia di mio marito rimasto a Roma ad accudire i nostri due figli impegnati con la scuola. Avevo preso alloggio all'Hotel Aida, in pieno centro cittadino, decisa a trattenermi in città per una sola notte, dopodiché sarei ripartita per Roma dopo avere sbrigato le pratiche notarili riguardanti un'eredità lasciatami da zia Rosa, deceduta poche settimane prima.
   La lettura del testamento era stata fissata nella prima mattina, obbligandomi a lasciare la capitale con largo anticipo per essere presente all'apertura del testamento, ed espletare le pratiche notarili insieme agli altri parenti.

   L'interno del ristorante era bene illuminato. Alle pareti trovavano posto alcune reti da pesca intrecciate e dei quadri a olio con nature morte. I tavoli erano affollati di clienti. Il chiasso era eccessivo anche per una pizzeria. Non avevo voglia di cenare in un locale siffatto, ma ero curiosa di visitare il resto del ristorante per constatare di persona com'era cambiata la stanza in cui Benvenuto e io eravamo soliti incontrarci.
   Mi scostai dalla grata e mi avvicinai alla volta di pietre e sassi su cui faceva bella mostra l'insegna al neon della sirenetta, poi entrai nella pizzeria. Rimasi sorpresa dall'andirivieni di camerieri che si spostavano con grande rapidità da un tavolo all'altro sorreggendo vassoi, tondi e fruttiere di ogni tipo. Uno di loro mi venne incontro e si rivolse a me.
   - Quanti siete? - disse con vago accento napoletano.
   - Sono sola.
   - Ah, bene, mi segua.
   - Veramente gradirei prendere posto al piano superiore. E' possibile?
   - Penso di sì.
   Lo seguii dappresso attraverso la sala fino a raggiungere la scala che conduceva al piano superiore. I gradini in cotto, consumati nella parte centrale, erano gli stessi che avevo calpestato anni prima a dispetto del resto del locale che aveva subito una radicale metamorfosi.
   - Le va bene qui? - disse indicando un tavolo quadrato apparecchiato per due persone, accanto a una delle finestre che si affacciavano nella strada. 
   - Vorrei sedermi là. - dissi indicando un tavolo all'estremità della sala, nello stesso punto dove ero solita incontrarmi con Benvenuto.
   - Sì, certo, non c'è problema.
   Mi accomodai al tavolo e il cameriere mi porse la custodia in similpelle che conteneva la carta con la lista del menù.
   - Non importa, non ne ho bisogno. Desidero che mi porti una pizza margherita e una lattina di chinotto.
   - Provvedo immediatamente.
   Mi sentivo particolarmente eccitata, ma sapevo bene qual era l'origine di tanta inquietudine.
   L'indomani mattina dal notaio, insieme agli altri parenti, ci sarebbe stato anche lui: Benvenuto. Ancora non sapevo come avrei reagito trovandomelo di fronte. Chissà se era cambiato dall'ultima volta che c'eravamo visti. Di lui serbavo il ricordo di ogni singolo tratto del viso: la forma della bocca, il naso bitorzoluto, le labbra sporgenti, i capelli. E il cazzo, sì, il cazzo, proprio il cazzo. Il suo bellissimo cazzo!
   Io e Benvenuto siamo cugini di primo grado e abbiamo la stessa età: trentacinque anni. Siamo cresciuti a stretto contatto, poppando il medesimo latte dalle mammelle di mia madre che, a differenza della sua, ne aveva in abbondanza. Da bambini avevamo trascorso intere giornate insieme, giocando, applicandoci nell'apprendimento scolastico, piangendo e ridendo. Gli anni dell'adolescenza li avevamo consumati come fratello e sorella, ma il nostro rapporto con l'andare del tempo si era trasformato in qualcosa di molto diverso.
   E' stato lui a togliermi l'illibatezza. Mi deflorò in un arroventato pomeriggio d'estate nel cesso della caffetteria dove eravamo soliti incontrarci. Sosteneva che non gli bastava che gli succhiassi il cazzo come avevo cominciato a fare già da parecchio tempo. Desiderava possedermi e io gli diedi un segno tangibile del mio amore donandogli ciò che avevo di più prezioso: la mia verginità, e non me ne sono mai pentita.
   La pizza che il cameriere mise sul tavolo aveva i bordi bruciacchiati. Servendomi di forchetta e coltello asportai la parte abbrustolita e cominciai a cibarmi della sottile pasta condita con abbondante olio d'oliva, pomodoro e mozzarella.
   Il sapore era buono, anche se per i miei gusti la pasta era un po' troppo cotta. Fra un sorso di chinotto e un trancio di pizza mi ritrovai a pensare a mio cugino.
   Lui e io avevamo frequentato lo stesso liceo. Per alcuni anni eravamo persino stati compagni di classe. Quando rimase bocciato al passaggio del quarto anno le nostre strade sembrarono dividersi, invece da lì ebbe inizio la nostra relazione amorosa.
    Prima d'allora non eravamo soliti frequentarci. Entrambi avevamo realizzato nuove amicizie e le nostre vite sembravano avere preso strade diverse. Eppure, ripensandoci bene, un episodio anticipatore di ciò che sarebbe accaduto c'era stato.

   Mentre sorseggiavo un sorso di chinotto mi ricordai che da bambini, i nostri genitori, in occasione di una festa di carnevale, ci fecero indossare gli abiti di Renzo e Lucia protagonisti dei Promessi sposi.
   Un morso a un trancio di pizza fu l'occasione per ripensare al primo bacio che c'eravamo scambiati. Accadde al cinema, mentre assistevamo alla proiezione di Pretty Woman, un film patetico e sentimentale con protagonisti Richard Gere e Julia Roberts. Una vera cagata.
   Ero stata io a chiedergli d'accompagnarmi al cinema. Nel giro delle mie amiche ero rimasta la sola a non avere visto il film. A tutti i costi non volevo perdermelo così chiesi a Benvenuto di tenermi compagnia per non recarmi al cinema da sola.
   Durante una delle scene strappalacrime mi ritrovai stretta a lui in cerca di protezione, invece Benvenuto ne approfittò per baciarmi. Si trattò di un timido bacio, labbra contro labbra, un gesto sfuggente, molto breve. Avevo poco più di diciassette anni e conosciuto solo brevi amori. Flirt nati sui banchi di scuola con compagni di classe, un po' di petting e nulla più.
   Il turbamento che mi provocò il contatto delle sue labbra fu tale che nei giorni successivi evitai d'imbattermi in Benvenuto e lo stesso fece lui.
   Mi vergognavo per quanto era accaduto. Avvertivo un forte senso di colpa, frutto di una educazione bigotta che mi faceva sembrare peccaminoso ciò che il mio corpo invece percepiva come naturale.
   Cercai in tutti i modi di rimuovere dalla mente l'episodio di cui ero stata protagonista, ma ero affascinata dall'eventualità che potesse ripetersi quell'abbraccio.
   Smisi di pensare a Benvenuto come a un cugino. Ero turbata dalla bellezza del suo corpo, delle spalle larghe, dai pettorali sporgenti e le cosce muscolose. Una forza nuova dominava la mia mente e non sapevo come sottrarmi dal pensare sempre più spesso a lui.
   Qualche settimana più tardi Benvenuto mi bloccò nei locali dei servizi igienici della scuola. Stavo fumando una sigaretta in compagnia di alcune amiche quando mi prese da parte e mi trascinò dentro la porta di un cesso. Nemmeno una parola gli uscì dalla bocca. Mi sospinse contro una parete, dopodiché posò le labbra sulle mie. Non mi scostai e lasciai che la sua bocca deformasse la mia, ma quando la punta della lingua cercò d'insinuarsi in profondità serrai i denti impedendogli di penetrarmi.
   Benvenuto non si perse d'animo. Ansimava e boccheggiava eccitato dall'essere a contatto con il mio corpo, ma anch'io ero eccitata, anzi lo ero più di lui, e cercavo in tutti i modi di nasconderglielo. Condusse le mani sotto il bordo del maglione e raggiunse con le dita le tette. Cominciò a carezzarmi i capezzoli turgidi e pieni di desiderio. Avevo il cuore in gola, tanto ero nel pallone, e non mi ribellai. Lo abbracciai e spalancai la bocca lasciandola alla mercé della sua lingua.
   A quel tempo non portavo il reggiseno. Ero magra e avevo le tette piccole, a calice. Le rare volte che mi capitava di indossarlo infilavo una seconda misura. Soltanto qualche anno più tardi i miei seni mutarono d'aspetto: accadde quando mi ritrovai incinta.
   Rimasi piacevolmente turbata dal contatto delle mani sulle tette. Prima d'allora a nessun altro avevo permesso di toccarmi in quel modo, con lui invece tutto sembrò naturale. Avevo le tette gonfie i capezzoli turgidi e la figa che faceva le capriole. Continuammo a baciarci scambiandoci un oceano di saliva dalle nostre bocche, fintanto che la campanella dell'intervallo pose fine alla ricreazione interrompendo il nostro convegno amoroso. Mi ricomposi e poco dopo misi il muso fuori dal cesso con lui appresso a me.
   "Ma che hai per essere così sconvolta" domandarono all'unisono le mie amiche quando feci ritorno da loro. "Niente, niente. Affari di famiglia" dissi sciogliendomi in lacrime.
   La nostra storia ebbe inizio quella mattina, nei bagni della scuola, ed è proseguita per parecchi anni fintanto che ho conosciuto Giorgio. L'uomo che ho sposato e con lui sono andata a vivere a Roma.

   Una coppia di fidanzatini, seduti a un tavolo accanto al mio, si scambiarono qualche timido sorriso mentre consumavano la pizza. Lui le sfiorava il dorso della mano e l'accarezzava voluttuosamente. Lei contraccambiava il gesto guardandolo teneramente negli occhi. Ripensai al modo rozzo con cui Benvenuto era solito rapportarsi con me. M'irritava il modo che aveva di parlare ad alta voce quando ci trovavamo a camminare per la strada. E poi ero in imbarazzo se mi prendeva sotto braccio tornando da scuola. Gli ripetevo che non doveva farlo, ma lui sembrava non farci caso e si prendeva gioco di me. Ma quando mi arrabbiavo per davvero e gli facevo una ramanzina, allora gli compariva sulle guance un certo rossore, ma non riuscii mai a capire se era pudore, vergogna o rabbia la sua.
   Benvenuto era un tipo fedele. Per lui esistevo solo io. Spesso gli domandavo: "E se un giorno ti tradissi?". Tutte le volte rispondeva: " Ti mollerei". E così è accaduto.
   La nostra storia fu tormentata. Mi affascinava il piacere fisico che sapeva infondermi. Ero stregata dai suoi modi, percepivo la sconfinata voglia di trasgressione che albergava in lui. Una voglia capace di produrmi continui sconquassi ormonali e liquefarmi la figa. L'amore, quello vero, plasmato di sentimenti e non solo di attrazione fisica e passione sopraggiunse molto tempo più tardi, dopo che avevamo già preso conoscenza dei nostri corpi.
   Qualche giorno dopo che c'eravamo scambiati i primi baci, nei servizi igienici della scuola, Benvenuto insistette per accompagnarmi a casa. Lo faceva spesso, e non feci troppo caso alla sua richiesta, ma in quella occasione feci conoscenza per la prima volta del suo sesso.
   Accadde nello scantinato del condominio dove abitavo. Stavo risalendo insieme a lui i gradini della scala che dalla cantina terminava nell'androne d'ingresso, al piano dell'ascensore, quando mi sussurrò all'orecchio:
   "Un ultimo bacio, dai, uno solo!" Con una certa riluttanza tollerai che mi baciasse senza contraccambiare il suo slancio. Avevo paura che qualcuno ci scorgesse e non vedevo l'ora di risalire le scale per fare ritorno a casa. Lui, al contrario, sembrava godere nel vedermi riottosa. Mi prese la mano e la guidò sopra la patta dei pantaloni. Altre volte mi era capitato di avvertire la protuberanza del suo sesso accostato al mio corpo, ma non avevo ancora assaporato il contatto diretto con le mie mani. Mi sentivo in imbarazzo, era la prima volta che accostavo le dita a un cazzo.
   Benvenuto mi fece da istitutore trascinandomi la mano sopra la stoffa dei pantaloni obbligandomi ad accarezzare la sporgenza che aveva fra le cosce. Abbassò la cerniera dei jeans e mise il cazzo nella mia mano.
   Era grosso e duro più di quanto me l'ero figurato nella mente. Imbarazzata mi divincolai dalla stretta e scappai lasciando Benvenuto con un palmo di naso.
   Mi piaceva masturbarlo, e provavo soddisfazione nel farlo venire alla svelta. Lui invece si arrabbiava, avrebbe desiderato prolungare all'infinito il piacere che sapevo infondergli, ma facevo di tutto per farlo sborrare rapidamente.
   I nostri incontri erano marchiati dalla folle paura di essere scoperti mentre ci baciavamo o scambiavamo frasi affettuose. Sono convinta che la gente ci avrebbe fatto segno di scherno se ci avesse scoperti, reputando il nostro rapporto incestuoso.
   I cinema di periferia divennero i nostri rifugi pomeridiani. Nel buio delle sale dei cinematografi potevamo baciarci impunemente, abbandonandoci a esplorare i nostri corpi. Un pomeriggio, mentre nel buio della sala lo stavo masturbando, mi prese il capo con la mano e mi sospinse la bocca sulla cappella, poi disse: "Succhia!"
   Non opposi resistenza, ero sorpresa dal fatto che avesse aspettato tanto tempo a chiedermelo; io non desideravo altro. 
   Approfittando del buio della sala e delle rare persone che riempivano la platea, m'inginocchiai ai suoi piedi e incomincia a succhiargli il cazzo. Nell'attimo in cui la cappella mi trapassò le labbra mi sembrò enorme. Allargai la bocca e cominciai a succhiare. Mi sentivo goffa e impacciata. Sprovveduta com'ero non riuscivo a capacitarmi se i movimenti delle labbra, strette attorno al cazzo, gli stessero provocando piacere.
   "Dai succhia! Succhia! Non smettere." - mi supplicò.
   Incominciai a fare scorrere le labbra attorno al cazzo irrorandolo di saliva. Se Benvenuto godeva io appagavo i miei sensi sorbendo il cazzo fino a togliermi il respiro. Il mio primo pompino ottenne un risultato eccezionale, ne fui così entusiasta che nei giorni successivi non riuscii a togliermi dalla testa la cappella che con tanto piacere avevo stretto fra le labbra.
   Benvenuto mi sborrò nella bocca dopo poco tempo che glielo succhiavo. Deglutii lo sperma e rialzandomi lo baciai rimettendogli dentro la bocca quello che gli avevo preso poc'anzi dal cazzo.
   I nostri incontri erano fugaci, di breve durata, non volevamo destare sospetti fra le persone che ci stavano intorno, per questa ragione il Caffè Cavour divenne il luogo preferito dei nostri appuntamenti. Per non dare adito a pettegolezzi andavamo in giro carichi di libri fingendo di recarci lì per studiare.
   Quando ero lontana da Benvenuto mi sentivo uno straccio. Ero angosciata, piena di rimorsi e sensi di colpa, e con tanta paura addosso. Uno stato di malessere che a volte si manifestava con vertigini, capogiri, sudorazione intensa e senso di oppressione al torace. La causa di questa afflizione era lui: Benvenuto.
   - Desidera qualcos'altro? - chiese il cameriere mentre mi toglieva il piatto da sotto.
   - Un caffè, un dolce, un gelato?
   - Sì, grazie, mi porti una coppa di gelato.
   - Alla frutta va bene?
   - Sì, direi proprio di sì.
   Seguii l'incedere del cameriere mentre si allontanava. La porta dei bagni si trovava all'altro lato della stanza vicino alla scala. Era lì che anni addietro avevo lasciato la mia verginità.
   Festeggiai in quel modo la promozione all'esame di maturità. Prima di allora mi ero rifiutata di concedere la figa a Benvenuto.
   Non volevo scopare perché mi ero fissata che scopando sarei rimasta incinta. In alternativa Benvenuto mi aveva proposto di scoparmi nel culo, ma non ne avevo voluto sapere perché mi faceva paura trovarmi a subire questo tipo di sodomia. La mia inquietudine traeva origine dal terrore che avevo di mettere al mondo un figlio handicappato perché concepito da parenti consanguinei. Questo tipo di preoccupazione non era campato in aria, né frutto della mia immaginazione, la scienza stessa sosteneva l'eventualità, seppure remota, di anomalie nel feto.
   Perdere la verginità fra le maleodoranti mura di un cesso non fu per niente romantico, ma nella vita di ciascuna persona ci sono momenti in cui si compiono scelte irrazionali e quella fu una di queste. Ricordo che avevo una dannata paura che mi sborrasse nella figa, neanche il preservativo si era portato appresso, il coglione.
   Quando mi deflorò mi fece un gran male, perlomeno questo è il ricordo che serbo di quella prima esperienza. Le volte successive, invece, imparai a godere del suo cazzo e lui della mia vagina.
   Da quel giorno incominciai ad aspettare con ansia l'avvicinarsi del periodo mestruale, anche se a ogni scopata avevo l'accortezza di fargli usare il preservativo. Un prolungato ritardo del mestruo di una quindicina di giorni mi fece pensare d'essere incinta. Fino allora ero sempre stata regolare nel ciclo, sballando di qualche giorno avanti e indietro. Quel ritardo mi mandò in crisi. Il ciclo mestruale tornò a essere normale e il ginecologo diede la colpa del ritardo al cortisone che avevo assunto per un intero mese per curare un'allergia da polline.
   In più di un'occasione le mie amiche mi chiesero ragione del comportamento che tenevo con gli uomini. Infatti, respingevo di continuo le avance dei numerosi spasimanti che m'invitavano a uscire in loro compagnia. Alcune amiche cominciarono a sospettare che fossi lesbica.
   Ero cosciente che il rapporto con Benvenuto non sarebbe durato a lungo e incominciai a tradirlo. Lo feci di nascosto, per mettere alla prova me stessa e il rapporto che mi legava a lui, ma quello che sapeva darmi Benvenuto nessun altro uomo riusciva a darmelo.
   Il giorno che scoprì che avevo una storia con il mio attuale marito non volle più saperne di me. Inginocchiata ai suoi piedi lo supplicai di recedere dalla sua decisione, ma lui non diede ascolto alle mie parole e mi scalcio via.

   Mi allontanai dalla pizzeria nel momento in cui l'orologio che porto al polso segnava le dieci e qualche minuto. Lasciai alle mie spalle l'ex caffetteria e il mio passato. Il mattino seguente, poco prima delle undici, mi presentai nell'ufficio notarile vestita in maniera compassata, adatta alla cerimonia. Indosso avevo un tailleur blu, camicetta bianca e scarpe nere con tacchi bassi. I capelli li avevo acconciati con la riga in mezzo e tirati all'indietro con due strisce lisce che mi ricoprivano le orecchie. Ad attendermi negli uffici del notaio c'erano i miei parenti, tra loro anche Benvenuto. Abbracciai tutti e per ultimo salutai anche lui.
   - Ciao. - disse aprendosi in un cordiale sorriso.
   - Ciao. - risposi imbarazzata.
   - Come va?
   - Bene, e tu?
   - Anch'io.
   Entrambi eravamo a disagio, confusi, ma proseguimmo a conversare amichevolmente scambiandoci solo frasi molto banali. E pensare che non ci vedevamo da dieci anni. Io, invece, avevo tante cose da dirgli. Lui non era cambiato, ai miei occhi appariva affascinate come e più di dieci anni prima. Ancora una volta la sua vicinanza mi provocò uno sbatacchiamento ormonale. Il notaio andò avanti a leggere il testamento della zia trascinandosi per le lunghe. Dopo avere espletato le formalità di rito, ci fece firmare una serie di documenti e mi ritrovai libera di fare ritorno a Roma.
   Scendendo le scale del palazzo dove aveva sede l'ufficio notarile, udii la voce di Benvenuto alle mie spalle.
   - Beh, te ne vai via così?
   Imbarazzata arrestai il passo e mi girai verso di lui
   - Ho fretta vorrei arrivare a prendere il primo Intercity che parte per Roma ed essere a casa prima di notte.
   - Neanche un caffè ti va di prendere insieme a me?
   - Beh, no, ma dai, vada per il caffè.
   Mi prese sottobraccio e al suo fianco discesi le scale fino in strada, poi mi divincolai dalla stretta.
   - Manca poco all'ora di pranzo ti va di consumarlo insieme a me?
   Diedi una sbirciata all'orologio. Mancava poco all'una e assentii. C'incamminammo per Via Garibaldi con l'intenzione di entrare in una delle tavole calde che si affacciano lungo la strada. Dopo pochi passi incappammo in un self-service e ci infilammo dentro.

   Un bailamme di gente infestava il locale. Ci sistemammo in coda alle persone che stavano in piedi, con il vassoio stretto nella mano, dinanzi ai portavivande dove le addette alla ristorazione provvedevano a distribuire il cibo.
   - E' la prima volta che mi capita di andare a pranzo in un self-service. - dissi.
   - C'è una prima volta per tutto. - suggerì Benvenuto.
   La risposta mi diede l'impressione d'essere sibillina, ma non ci feci troppo caso. Presi un primo piatto con del risotto alla milanese e un contorno d'insalata. Benvenuto, invece, riempì il vassoio con un piatto di spaghetti al pesto, una braciola e delle patate fritte. Ci accomodammo a un tavolo d'angolo e posammo i vassoi sul ripiano.
   - Ti spiace vado in bagno. Ho bisogno di fare la pipì. - dissi.
   - No, fai pure. Ci vengo anch'io, ho bisogno di lavarmi le mani.
   Attraversammo la sala e infilammo il locale dei servizi igienici. Lasciai Benvenuto davanti alla toilette degli uomini e oltrepassai la soglia di quella per le donne. Poco dopo mi trovai chiusa fra le mura del gabinetto. Abbassai le mutandine per fare la pipì, prima però accostai due strisce di carta sul water di maiolica e solo allora lasciai che l'urina defluisse dalla vescica.
   Stavo pisciando quando sentii bussare alla porta.
   - Occupato! - dissi.
   Dall'altra parte qualcuno seguitò, imperterrito, a battere il pugno sulla porta con insistenza senza desistere.
   - Occupato! - ripetei ancora.
   - Sono io, apri!
   Mi sentii smarrita. Non sapevo come comportarmi, conscia di ciò che sarebbe potuto accadere se avessi aperto la porta.
   - Dai, apri, non fare la scema.
   Tolsi il chiavistello e lasciai che Benvenuto si ficcasse dentro. In un attimo mi fu addosso e mi riempì di baci. Non opposi alcuna resistenza, lo lasciai fare aprendomi a lui e all'opprimente desiderio che avevo di essere scopata dal suo cazzo.
   - Togli tutto! - ordinò.
   Mi liberai del tailleur e della camicia e restai in mutandine. Benvenuto infilò la mano nel tessuto di pizzo, con le dita mi raggiunse il pube e accarezzò la figa. Ebbi un sussulto e subito dopo un altro ancora, poi tutto il mio corpo fu percorso da brividi. Seguitò a carezzarmi le labbra della vagina con le dita, delicatamente, soffermandosi a strofinare il bocciolo del clitoride, poi introdusse due dita nella fessura e cominciò a scoparmi. Le sue labbra sapevano di vissuto, mi penetrò con la lingua dentro la bocca e mi sciolsi.
   Avevo la figa bagna fradicia. Ci sapeva fare con le dita. Oh, sì che ci sapeva fare! Non c'ero più abituata ai suoi modi.
   Ripresi a tremare in tutto il corpo e gli rifilai un morso sul collo addentandolo con tutta la forza che avevo addosso. Urlò e mi sollevò da terra, poi mi spinse con la schiena contro il muro tenendomi sollevata da terra con le gambe incrociate sul suo bacino. Con il cazzo si aprì un passaggio fra le mie cosce mentre continuavo a morderlo dietro il collo. Dopo un po' di tempo che mi scopava si mise seduto sulla tavolozza del water e mi ritrovai con le natiche appoggiate sulle sue ginocchia.
   Mi stupì quando affermò:
   - La mia vita non ha senso senza di te. Mi manca il tuo calore.
   Non risposi, non avrei potuto dirgli quello che anch'io provavo per lui. Afferrai il cazzo nella mano e lo infilai di nuovo nella vagina, poi cominciai a roteare il bacino muovendolo avanti e indietro. Le pareti della vagina fecero presa attorno il cazzo regalandomi un piacere che nessun altro uomo ha mai saputo darmi.
   L'orgasmo sopraggiunse fulmineo, inaspettato. Una forte sensazione di calore mi partì dal basso e mi esplose nella testa scuotendomi il corpo. Rimasi incollata a lui che imperterrito seguitò a scoparmi senza mai desistere, godendo di quanto gli offriva il mio corpo.
   L'acme del piacere giunse anche per lui poco dopo.
   - Vengo... Vengo... Vengo... - gridò.
   - Sì ... Sì... Sì...
   L'orgasmo sopraggiunse insieme al mio e ci trovò abbracciati. Benvenuto mi sborrò nella vagina e io non mi levai lasciando che il seme risalisse dentro di me.

   Arrivai alla stazione poco prima che sopraggiungesse l'Intercity con cui feci ritorno a Roma. Giunsi a casa poco dopo la mezzanotte. I bimbi dormivano, mio marito riposava nel letto.
   Mi sono chiesta infinite volte che parte ha Benvenuto nella mia vita e ancora non lo so. La giornata trascorsa a Parma ha lasciato una traccia dentro di me. Ieri ho fatto il test di gravidanza: è risultato positivo. Sono felice.

 

 
 

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